Texts/Press

2023

Zanon, Emanuela: Il sensuale minimalismo di Gerold Miller in mostra a KAPPA-NöUN, 2023

Gerold Miller (1961, Altshausen, Germania) è noto per la coerenza con cui ha sviluppato, negli anni, una inconfondibile poetica minimalista e concettuale incentrata sull’esplorazione delle innumerevoli possibili interazioni tra lo spazio (reale e fittizio) dell’opera e la percezione visiva dello spettatore. Formatosi come scultore presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccarda, sin dagli esordi si concentra sulla creazione di oggetti-cornici in bilico tra la pittura e la scultura realizzati in alluminio e rivestiti di lacca o smalto industriale. Le sue opere sono spesso descritte come rigorose, geometriche e razionalmente progettate per attivare lo spazio circostante attraverso una calibratissima sinergia della luce e del colore. Se, a prima vista, si sarebbe tentati di associare la riduzione formale che le caratterizza alla radicale essenzialità compositiva di Donald Judd, la sensuale irradiazione del colore nell’ambiente sembra piuttosto collocarle in una posizione intermedia tra questi e Dan Flavin, per il quale il neon è un modulo da articolare in serie potenzialmente infinite che entrano in rapporto critico con lo spazio.

Anche in Miller troviamo l’utilizzo di semplici forme ricorrenti che si relazionano al contesto architettonico in cui si distribuiscono evidenziandone le specificità strutturali, combinato all’enfatizzazione del nesso colore-luce inteso come strumento di metamorfosi poetica di un dato ambiente. Nel caso dell’artista tedesco non si tratta di una vera e propria emanazione luminosa da parte degli elementi scultorei, ma dell’effetto di calcolati accostamenti cromatici e di figurazioni astratte che in ogni singolo pezzo creano illusioni di profondità e moltiplicazione dei piani pur nell’ineccepibile planarità delle stesure. La leggera proprietà specchiante, dovuta alla laccatura, che accomuna tutte le superfici uniformando l’intensità della saturazione, inoltre, induce a leggere la successione di più opere come una scansione cromatica dello spazio in cui vivono, dal quale lo spettatore si sente al tempo stesso accolto e respinto a causa dell’evanescenza del riflesso che restituiscono. Quest’effetto è il risultato di una maniacale attenzione alla qualità delle verniciature e all’impeccabilità della lavorazione dei materiali, operazioni che vengono commissionate dall’artista a officine industriali specializzate, con altissimi costi di produzione. Proprio la perfezione esecutiva e la complessità del processo produttivo marcano la radicale diversità tra la pratica di Miller e quella dei padri del minimalismo storico, dei quali sembra reinterpretare la vocazione alla sintesi alla luce di sollecitazioni estetiche provenienti dalle consuetudini visive instaurate dal digitale.

Un’ulteriore ambiguità percettiva si riscontra anche se ci si sofferma sull’aspetto morfologico, a proposito del quale possiamo osservare come la proporzione tra i vari moduli che compongono le opere (e ogni allestimento nel suo insieme) sembra rifarsi ai multipli e ai sottomultipli di una scala che, benché slegata da ogni riferimento dichiarato, viene spontaneo riferire alla dimensione umana. Questo è forse il principale motivo per cui Gerold Miller non concepisce i suoi lavori come oggetti autosufficienti, ma li immagina sempre in relazione a un ambiente reale di cui egli stesso fa esperienza prima di iniziare una nuova serie e che costituisce il presupposto di quella speciale intersezione tra scultura, superfici murali e pittura a cui si può in ultima istanza ricondurre la molteplicità delle problematiche figurative da lui affrontate. Il muro, dunque, (come lo spazio tridimensionale in cui si collocano le opere scultoree) anziché essere un impersonale supporto espositivo, entra a pieno titolo tra gli elementi basilari dell’opera, come dimostrano i modellini preparatori in cartone con cui fin dall’inizio egli progetta in ogni dettaglio le reciproche corrispondenze e interconnessioni tra lavori ancora da eseguire e da lui preliminarmente convocati sotto forma di presenze mentali.

Appare chiaro a questo punto come, sebbene sia sempre affascinante incontrare una delle sue enigmatiche opere in fiere e mostre, per sperimentare appieno le sottigliezze percettive della sua poetica sia di gran lunga preferibile accedere a una sua installazione ambientale site-specific, in modo da potersi immergere nelle reciproche riflessioni e rifrazioni tra le opere. L’occasione da non perdere è ora una monografica, realizzata in collaborazione con la galleria Artesilva di Seregno (MB), a KAPPA-NöUN, spazio espositivo fondato a San Lazzaro di Savena (BO) dal collezionista Marco Ghigi, ispirandosi al quale Gerold Miller ha creato la serie inedita denominata set, qui presentata in anteprima assieme a tre nuove sculture della serie Verstärker. Queste ultime ripetono in tre differenti scale l’unico modulo scultura a cui l’artista si dedica da sempre, ovvero una formazione tripartita di tre parallelepipedi orientati tra loro ad angolo retto, di cui due formano la base e il terzo si protende in altezza. Le sculture abitano lo spazio come presenze stilizzate, ma il silenzioso dialogo che instaurano tra loro, i visitatori di volta in volta inquadrati dalle loro griglie e le opere a parete pervadono di ambivalenza la natura di questi oggetti (e anche quella di chi si trova tra loro irretito). Se finora la forma tridimensionale in Miller è sempre identica a sé stessa, l’evoluzione di questi lavori sta nel materiale: anziché essere fatti di acciaio inossidabile, come i moduli-quadro da lui destinati al muro, sono state prodotti in marmo nero del Belgio massiccio. Estremamente spiazzante è il fatto che le superfici, trattate con una sofisticata lavorazione, rimandano l’identica specchiatura di quelle metalliche, al punto da rendere veramente arduo notare la differenza, nonostante l’affiorare di qualche delicata venatura.

La nuova serie set invece si compone di sei opere rettangolari di dimensioni diverse disposte in sequenza su un’unica parete, su ciascuna delle quali si ripete la medesima composizione geometrica, formata da un quadrato (centrale rispetto al piano pittorico nel senso della larghezza ma posizionato verso il basso in quello dell’altezza) incorniciato da altre quattro campiture di colore differente orientate a 45° in modo da creare una sorta di movimento a vortice di cui il quadrato sembra essere il fulcro. Appare più che mai evidente qui come la figurazione astratta di Miller non voglia mai definire un’immagine statica, ma piuttosto un confine mutevole tra spazio interno ed esterno, continuamente rimesso in discussione da sfondamenti illusionistici ottenuti attraverso il controllo virtuosistico di una pittura strettamente ancorata alla bidimensionalità. In particolare, questi set più articolati e mossi, che rappresentano un ulteriore sviluppo del suo lavoro per l’utilizzo di cromie e geometrie inedite, suggeriscono sia volumetrie equivoche tra il rilievo e la rientranza e sia il movimento circolare di apertura e chiusura di un obiettivo analogico. In un certo senso dunque, le opere di Miller, nonostante il loro saldo assetto minimalista che non ammette errori né sbavature, possono essere viste come un’appassionata indagine sulla natura umana e sul modo in cui la percezione influisce sul modo in cui vediamo e comprendiamo il mondo.

Dehò, Valerio: No boundaries, 2023

Gerold Miller’s works are not meant to recall the period of European geometric abstraction, they originate from the Conceptual Art of the 60s which essentially reflected on what art is and on which tools it is based. This artistic movement chiefly considered the aspect of the idea, of a project, and not the actual process of making the artwork.

Besides, there have been many attempts to erase any form of pleasantness, of color, from the art, and hence precluding any compromise with the idea of „beauty“. Early on in 1991, Gerold Miller began to combine the fundamental question of Conceptual Art, „what is art“, with a clear vision that it was necessary to take further steps, to realize artworks, paintings or sculptures which incorporate this meaning and simultaneously have an unquestionable form and quality.

In order to do that, he set out to investigate for instance the relationship between frame, artwork and the environment; he allowed the walls, on which his pieces are mounted, to „enter“ his works. His abstraction is, however, an indicator of what reality and destiny are, in which a painting or a sculpture must find a purpose. Consequently, Miller worked on the boundary between the concept and the frame, between the bidimensional artwork and the sculpture, between the sculpture and the surroundings. An aesthetic operation that is always extremely rigorous, because based on this precision and quality, the entire German artist’s poetic develops.

It is also clear that his artworks require a careful and attentive spectator who addresses his work by participative means and with an analytical eye. In any case, the shapes are essential and are realized as rational and well-thought-through forms, certainly his geometries composed of overlaps, lines and angular cuts are supported by color for their own proposition to the public. Favoring color over shape was surely a way out and the amplification of an artistic concept that made rigor its unavoidable characteristic. It still remains extraordinary how through his 30 years of progress, Gerold Miller has always been able to maintain an analytical line which has been supported by his search for new possibilities and new paths.
Particularly his sculptures and paintings made of aluminum, lacquer and enamel are polished and bright. They have the patina of the contemporary world, the gloss of a technological product and the smooth and pleasant design of synthetic materials. They contain an idea of the future. They are fascinating objects, emanating from the aesthetic pleasure of Conceptualism and historical Minimalism, they pick up on their cultural background but lead it back to the desires of art that has the courage to return to beauty. And the relationship between shape and color is a process that belongs precisely there.

Abstract or concrete? Here, too, Miller’s works tend to give a positive answer in both respects. Not one or the other, but both. Painting or sculpture? Again, the answer is twofold. Though actually, the artist strives to overcome these oppositions, he points to the boundaries, those areas in which neither one nor the other is triumphant, where there is a line that separates and simultaneously unites. The concept of a boundary itself must be subjected to further investigation as it can be a connection that evokes proximity and not only distance. We all remember Wim Wender’s movie from 1967, „Kings of the Road“ (Im Lauf der Zeit) which plays at the border between both German states which were then divided between the West and communist countries. What appears is not always true, perhaps because what we see does not coincide with what we know. Miller’s works establish an open relationship with reality that is uncertain, appearing as definite and final but in which there are often elements of uncertainty, of doubt. Spatial relationships are sometimes marked by the full/empty play, in others, there is a hint of virtuality that opens up the possibility of illusion. After all, perspective itself, called by Alberti a „legitimate construction,“ has a truth of its own in being something artificial. In fact, it is always about the illusion since there is an indeterminate space within a two-dimensional canvas. Then, we understand how the German artist’s poetics and rigor are nevertheless situated within the art history, they are an epitome of it that on the one hand takes on views of certain schools of art and thinking of the 20th century, and on the other hand looks much further back: towards the potential of the arts and painting to give life to a scenic space. Then, his painting-objects have complex characteristics precisely because they set out to investigate shifting boundaries that have never before been traced.

The multidirectionality that he achieves with minimal tools surely indicates an extraordinary knowledge of issues related to the space of representation and the history of the invention of the painting as art historian Victor Stoichita has defined it. Not only the color contrast but also the lacquer overlays, reminiscent of painterly glazes, provide sufficient clue in addition to the extension of orthogonal lines and bisectors. They seem to enact the analytics of perspective construction, its transformation into its component elements: they are the hyperbole of a secret geometry. These interpretive coordinates are also evident in his sculptures. The title Verstärker (amplifier, repeater) certainly derives from their verticality as they are open structures indicating the directions of three dimensionality, height, length and depth. The minimalism is unimpeachable and clear, in this series made of black granite the material itself tends to disappear, to become one with the form. The granite reflects the environment hardly to a lesser extent than those made of metal, leaving the effect of a sculpture that not only sits in space but in a sense absorbs it into itself. This is why they are „amplifiers“ because the environment they are placed is enhanced
by the surfaces of the sculptures, everything is brought back to the three basic directions.

Here, like with the wall works, Miller knows how to find the right visual key to offer a new spatial dimension to a sculpture made minimal in its analytical reading. The fundamentals of perspective and plastic vision are absorbed by the works, they become exemplary while still remaining themselves. Conceptualism becomes a work, without forsaking any analytical-rational form. That is why it is important that his exhibitions include the two fundamental types of works because the vision is doubled, the environment is made a participant and protagonist through the works that make it unique, new, and absorb it. Once again it is the artist’s intelligence to determine new spatial relationships, to explore the uncertain boundaries between the frame and the environment, to make the audience the protagonist of an aesthetic, physical, perceptual experience that is not figural, but abstract. The Sublime is always and only now. Because it can be experienced exclusively in the presence of the work of art, as Barnett Newman said/wrote in 1947.

2021

Nymphius, Friederike: On Gerold Miller's Oeuvre, 2021

„Our sense of space develops from our ability to move in space, whereas the sense of time develops from the fact that we, as biological beings, are subject to change and pass through different stages. Place as a spatial aspect is a pause in time, the temporary pausing of our perception at the configurations of objects. Place, unlike time, is a static concept.“ (Olga Tokarczuk, Unrast 2019)

Gerold Miller’s black set operate at the edges of surface and space, of light and dark, or more precisely, of the visible. Large-format, monochrome black surfaces absorb the viewer’s gaze. Contrasts such as matt and gloss create illusionistic depths below the surface. Overlapping surfaces simulate spatial impressions that emerge from the pictorial space and at the same time slide back into it. The works venture into the extreme border area of the representable. As ‚blind‘ images, they are of a similar enigmatic quality as Kasimir Malevich’s Black Square.

Like the darkrooms of photography, they allow images to emerge from darkness, stretching the space of human experience to infinity and amalgamating fragments of reality that would not intersect otherwise. They create a space behind the image surface that is only revealed throughout the process of perception. Although everything within the works is balanced, fixed, and surfaces or angles define the pictorial field, the images they evoke are constantly changing under the influence of light and atmosphere. Without filtering, the black set reflect what is directly in front of them and what is happening in their surroundings, giving them an extreme immaterial presence in addition to their strong physical one. They know only the here and now, consolidating presence and place in a dark echo chamber.

Free of references, the black set are neither allusions, nor do they trigger intentional associations. Nevertheless, they emerge from conditions of the present. Random images and snapshots from their surroundings, which the artist neither can nor wants to influence, inscribe themselves on their surfaces. Similar to Instagram, they show only a small section of the complexity of our world which is at the same time a projection surface for all kinds of needs and desires.

Materiality is an important keyword for the artist. As they are charged with meaning, the particular qualities of steel and aluminum go beyond their mere functionality. The precision, hardness and elegance of his highly polished lacquer works are contrasted with the brittle, dull materiality of raw silvery aluminum which he uses in particular for his conceptually conceived works. The scratch works created for I love Kreuzberg frame Berlin as the expanded field of experience from which Gerold Miller feeds his artistic work. Kreuzberg is a raw urban place, roughly comparable to the uncharming directness of the material aesthetic of raw aluminum. For this group of works, the artist dragged unprocessed forms through the district on foot and by car. The stories of the place inscribed themselves into the total objects as scratches, dirt, and remnants of abrasion covering their surfaces. As traces full of narrative content, they contrast their dynamic impact with the emphasized permanence of the art works.

The consideration of art as space and present plays a significant role throughout Gerold Miller’s work. It is about the viewer’s perspective of himself in space that surrounds him and how he situates himself to it. The fusion of artwork and viewer becomes a constantly evolving process and marks simultaneity as an essential factor, especially respective the sculptures (Verstärker) made of polished stainless steel, constituting projection as well as integration. Their reflecting silver surfaces cast back fragmentary images and for a fleeting moment frame the viewer as the actor. The reflections and refractions created by these angles allow surprising optical impressions to arise which link up sections of floor and ceiling, or facing walls, and in this way realign space in an almost labyrinthine manner. In them, one can experience the world as simulated and real at the same time and move through virtual as well as real space. With this particular series, Gerold Miller has succeeded in uniting space and time, standstill and movement, subject and object, viewer and work in a piece of art which is a living organism rather than a cool static art object. Keywords or interpretations such as participation of the viewer and living organism point to important references of the South American post-war avant-gardes which rejected strict formal guidelines and emphasized the participation of art at the social or society in whatever form.

Black as open source for images, silver as matrix for integration and participation. It is at this point that Gerold Miller allows his entire work to unfold: deeply grounded in the present time, his art is taking a stance and offers an important rehearsal space for reflections on our reality. By using the universal language of geometry the artist has created a screen of projection for the viewer that evades fixed themes and statements, leaving it to each individual to find his own images. His oeuvre also alludes to a culture whose most essential characteristic is the cyclical repetition of patterns and structures and in which the original loses its significance while the focus is set on repetition. Anarchically, he dissolves seriality and hierarchical thinking, shifting the emphasis to the presence of the artwork instead.

Nevertheless, contemporary art cannot escape or isolate from social processes, since they arise and stand on the same ground. Gerold Miller is aware of this and accepts this responsibility without explicitly formulating it. Therefore, his works are not subject to an expiration date as they permanently recharge with new content, retaining this way their validity and topicality.

 

an essay by Dr. Friederike Nymphius, Berlin, 2021

Willet, Jack: GEROLD MILLER, exhibition text ASHES/ASHES, New York City, 2021

March 2021

 

GEROLD MILLER
Ashes/Ashes, New York City

This is a room of        spatially concerned objects, each discussing and defining their limits internally, in relation to one another — to those that came before and those which will come after — and to the        space that houses them. This is a room of monochromatic tones, of blacks as black as the night sky, which retreat to the greyed-white of the eye’s sclera. This is a room of shining surfaces, the finish of a burnished onyx stone. A room of radically definitive definitions with diversity.

Within this room, objects create borders, or barriers, while others present voids — some have been filled in, others engage in total openness — and containment devices composed of themselves. Many objects touch on a number of these elements.

Housed in this room, modernist shamanic staffs adhere to the walls, while another wished to fully alchemise into phenomenological        spatiality, allowing itself to distort as it fell from the pictorial support. These considerations — steely lengths, both straight and twisted, both marked by human gesture and flat as perfect industrial shadows — start to define        spatial discussions. A recognition of        space as extrinsic points to a total understanding of their power as objects, of how their placement articulates the marked        space they fill, consume and define.

This room is punctuated by a sole circular “total” void, composed of full and half-tones of blackest ever black, looking to total        spatial openness — beyond Concetti Spaziali. Like a star sitting in the flatness of darkened space, only to spiral, transform into a destructive void (a black hole), presenting a focus that nothing can escape, the moment of calm and pure emptiness before the storm. A tension so visceral. The total radial void — an open absence — offers speculative opportunity, while also talking to the very present and direct state of being (within this room, at this moment, within this        space) and the particular possibilities present in this contemporaneity.

In this room, objects sit alongside and in context with examples of totality via        spatial voids. They play in grey zones — literally and figuratively — exploring a        space of hybrid        spatial presences, but ever self-contained. These distinct objects draw you into an extension of themselves, perspectives reversed, and you find yourself within a new room. Lying down in the evening without the aid of artificial light, contemplating the endless architectural openings — homages to squares — which cast night tones of light across walls of pre-existing monochromatic gradients, punctuating their natural dimness — or inverted lightness. Light outlines new        space confined within predefined        space. Objects become rooms within rooms, entombing their viewers in new        spatial parameters.

This is a room of radically definitive definitions with diversity.

 

— Jack Willet, 2021

2020

Nymphius, Friederike: inside (a black set), 2020

Februar 2020

 

Inside (a black set)

„Unser Raumgefühl entwickelt sich aus unserer Fähigkeit zur Bewegung im Raum, das Zeitgefühl hingegen daraus, dass wir als biologische Wesen dem Wandel unterworfen sind und verschiedene Stadien durchlaufen. Der Ort als räumlicher Aspekt ist eine Pause in der Zeit, das vorübergehende Verharren unserer Wahrnehmung bei den Konfigurationen von Gegenständen. Der Ort ist im Unterschied zur Zeit ein statischer Begriff.“ (Olga Tokarczuk, Unrast 2019)

Die schwarzen set von Gerold Miller operieren an den Rändern von Fläche und Raum, Licht und Dunkel, genauer: des Sichtbaren. Grossformatige, monochrom schwarze Flächen absorbieren den Blick des Betrachters. Kontraste wie matt und glanz lassen illusionistische Tiefenräume aus der Fläche entstehen. Sich überlagernde Flächen simulieren räumliche Eindrücke, die aus dem Bildraum heraustreten und zugleich wieder in ihn zurück gleiten. Die Arbeiten begeben sich in den extremen Grenzbereich des Darstellbaren, loten ihn aus. Als ‚blinde‘ Bilder sind sie von einer ähnlichen enigmatischen Qualität wie das Schwarze Quadrat Kasimir Malewitschs.

Wie die Dunkelkammern der Fotografie lassen sie Bilder aus der Dunkelheit entstehen, dehnen den Raum der menschlichen Erfahrung ins Unendliche aus und amalgamieren Fragmente der Realität, die sonst nicht aufeinandertreffen würden. Sie schaffen einen Raum hinter der Bildfläche, der sich erst im Wahrnehmungsprozess erschliesst. Obwohl in den Werken alles ausgewogen, festgelegt ist und Flächen oder Winkel das Bildfeld definieren, verändernden sich die von ihnen evozierten Bilder unter dem Einfluss von Licht und Atmosphäre ständig. Ungefiltert reflektieren die schwarzen sets das, was sich direkt vor ihnen befindet und in ihrer Umgebung passiert, wodurch sie neben der starken physischen auch eine extreme immaterielle Präsenz erhalten. Sie kennen nur das Hier und Jetzt, verdichten Gegenwart und Ort zu einem dunklen Echoraum.

Die Setzung von Kunst als Ort und Gegenwart spielt im gesamten Werk von Gerold Miller eine bedeutende Rolle. Es geht um die Perspektive des Betrachters auf sich selbst in dem ihn umgebenden Raum und wie er sich dazu verortet. Die Verschmelzung von Kunstwerk und Betrachter wird dabei zu einem immer wieder neuer Vorgang und macht besonders für die schwarzen sets Simultaneität zu einem wesentlichen Faktor: Sie stehen zugleich für Projektion wie auch für Integration. In ihnen kann man die Welt gleichzeitig simuliert und real erfahren und sich zugleich in einem virtuellen wie auch in einem wirklichen Raum bewegen. Mit dieser Werkgruppe ist es Gerold Miller gelungen, Raum und Zeit, Stillstand und Bewegung, Subjekt und Objekt, Betrachter und Werk in einem statischen Kunstwerk zu vereinen.

Frei von Referenzen sind die schwarzen sets weder Anspielungen auf etwas, noch lösen sie gewollte Assoziationen aus. Dennoch entstehen sie aus den Bedingungen der Gegenwart. Auf ihren Oberflächen schreiben sich zufällige Bilder und Momentaufnahmen aus ihrer Umgebung ein, auf die der Künstler weder Einfluss nehmen kann, noch möchte. Ähnlich Instagram zeigen sie nur einen kleinen Ausschnitt von der Komplexität unserer Welt, der zugleich Projektionsfläche für alle möglichen Bedürfnisse und Wünsche ist.

Assoziationen zum Palimpsest drängen sich auf. Seit Mitte des 19. Jahrhunderts wird das Palimpsest als Metapher für geistige und künstlerische Prozesse verwendet und bezeichnet ursprünglich das ständige Überschreiben eines Blatts mit neuem Inhalt. Der englische Essayist Thomas De Quincey verglich in Suspiria de Profundis (1845) den menschlichen Geist mit einem Palimpsest: „Was Anderes als ein natürliches und mächtiges Palimpsest ist der menschliche Geist? … Immerwährende Schichten von Ideen, Bildern, Gefühlen sind auf deinen Geist gefallen so sanft wie das Licht. Jede Abfolge [von Gedanken] verbrannte scheinbar alles was vorher war. Und doch wurde in Wirklichkeit keine Einzige ausgelöscht.“

Diese Vorstellung untergräbt das Konzept vom Original und verschiebt diesen Anspruch an das Ende einer theoretisch unendlichen Kette von immer wieder neuen Originalen. Das klassische Zeitgefüge löst sich auf, es gibt kein vorher oder nachher nur noch Gleichzeitigkeit. Das Prinzip des Palimpsest antizipiert und reflektiert daher eher zufällig die heutigen industriellen Produktionsmethoden wie die Serialität, welche die Gesellschaft inzwischen durchdrungen hat. An diesem Punkt lässt Gerold Miller sein ganzes Werk ansetzen: Es steht auch für eine Kultur, deren wesentlichste Charakteristik die zyklische Wiederholung von Mustern und Strukturen ist. Das Original verliert darin seine machtvolle Bedeutung, während sich der Fokus auf die Repetition richtet. Anarchisch löst die Serialität das hierarchische Denken auf, betont die Präsenz des Kunstwerks und erzeugt eine klar strukturierte Bildrealität, die sich von der Unübersichtlichkeit der Gegenwart klar abhebt.

Trotzdem kann sich die zeitgenössische Kunst den gesellschaftlichen Vorgängen, Konflikten und Umbrüchen nicht entziehen, da sie auf dem gleichen Boden entstehen und stehen. Gerold Miller ist sich dessen bewusst und nimmt diese Verantwortung an, ohne sie explizit zu formulieren. Mit seinen schwarzen set hat er sich einen Freiraum geschaffen, der sich festgelegten Themen und Aussagen entzieht. Ebensowenig gibt er Inhalte vor, sondern überlässt es dem Betrachter, seine eigenen Bilder zu finden. Dadurch unterliegen seine Werke keinem Verfallsdatum, sondern können sich permanent neu mit Inhalt aufladen, wodurch sie sich Gültigkeit und Aktualität bewahren.

 

— Friederike Nymphius, Berlin 2020

2019

Verzotti, Giorgio: Gerold Miller. Eduardo Secci Contemporary, Artforum, 2019

November 2019

Gerold Miller’s work can be interpreted as existing within a continuous tension between object and space, within a relationship where the artist’s sculptures or wall pieces literally open up to the space that hosts them and deconstructs it. This show featured works in which the space actively breaks the unity of the surface, including examples from several of the thematic series the German artist has been producing for more than a decade. While Miller’s conceptual point of departure is painting, he subjects the fundamental two-dimensional code of pictorial expressiveness to a sort of genetic mutation by painting not on canvas but on aluminum supports, which he treats with brightly colored industrial lacquer, creating chromatic fields that are perfectly and above all mechanically defined.

This effect could be seen in five recent, variously sized works from the series “total object,” 2008–19, hanging in rooms adjacent to the main exhibition space, which all presented variations of a square with curved corners and an opening made in the surface, not in the center, but toward the bottom right. In this way the supporting wall became integrated into the works, while the off-center voids imbued the paintings with dynamism, particularly when chromatic bands came into play, surrounding the opening and implying a rotating motion, as in total object 211, 2010.

Miller frequently uses scale for emotional impact. instant vision 156, 2019—a square with rounded corners, measuring roughly 110 inches per side—is larger than a person of average stature with arms extended. This work has two circular openings, one at the top and one at the bottom, and the face is made up of three different chromatic zones—black, red, and pink. The lacquered surface is reflective, which here contributed to the sense that the exhibition site was part of the work, no less than the viewer interacting with it (especially given its size). The three examples from the series “Verstärker” (Amplifier), 2016–, in which a metal bar is placed vertically in a space, were of varying heights, like maquettes for monumental projects that gradually increase in size. They brought to mind the “zips” with which Barnett Newman organized his paintings’ surfaces, but which here transcended two-dimensionality and were deployed in the actual space, not only dividing it into a right and a left part but, indeed, reorganizing its very structure.

A small group exhibition concurrently on view at the same gallery included Miller’s Monoform 31, 2014, a miniaturized rendition of an idea that in other cases has been realized at gigantic scale. It was made of two aluminum bars placed at the top and bottom of a wall, as if demarcating the empty space it delineated as its “content.” But the viewer saw only an indicator, the trace of a linguistic code in a language that is known but not operational. The empty wall was our here and now, and the work became an object of thought. As the artist has said, “All art is embedded in a social framework.” Here, we could not avoid recognizing that art is our own project.

Translated from Italian by Marguerite Shore.

Grunwald, Nora; Miller, Gerold: Interview mit Gerold Miller, Katalog: Gerold Miller, pp. 116-123, 2019

Interview gehalten am 31. Januar 2019
im Atelier von Gerold Miller in Berlin-Tempelhof,
mit Nora Grunwald (Atelierleitung)

Hallo Gerold, ich freue mich auf das Interview und darauf, ein paar Einblicke in deine Arbeitsweise gewinnen zu können. Im letzten Jahr wurde eine erste kunstwissenschaftliche Masterarbeit über deine künstlerische Arbeit verfasst, wie fühlt sich das an?
Ich fand es auf jeden Fall spannend, in die Vergangenheit zurückzugehen und die einzelnen Stationen meines Weges im heutigen Licht zu reflektieren.

Der vorliegende Katalog gibt einen Überblick von 2016 bis 2018, von der letzten Retrospektive in der Kunsthalle Weishaupt bis heute. Auffällig ist für mich, dass in dieser Zeit deine Werke immer monumentaler geworden sind, man denke an Werkgruppen wie deine Skulpturenserie Verstärker oder die der section. Gibt es einen Grund dafür?
Große Arbeiten gab es bei mir schon immer. Von Beginn an wollte ich Raum bis auf das Äußerste belasten. Deshalb habe ich schon kurz nach der Kunstakademie Arbeiten gemacht, die nicht mehr zu vergrößern waren. Ich wollte räumliche Grenzen ausloten, neu vermaßen, definieren, heute spreche ich eher von aktivieren.

Wird es die section nur in diesem großen Format geben?
Manche Arbeiten funktionieren hauptsächlich über ihre Ausdehnung, wie die section. Ich bin davon überzeugt, dass bestimmte Formen nach bestimmten Dimensionen verlangen, schon allein wegen ihrer Präsenz. Der Korpus der section hat eine sehr dynamische Form und braucht daher viel Fläche. Aber gleichzeitig muss sie sich bei maximaler Größe dem Raum öffnen und mit ihm ein Gleichgewicht halten. Ich orientiere mich an den menschlichen Proportionen, daher habe ich ein Format gewählt, das größer ist als eine menschliche Figur mit ausgestreckten Armen.

Deine Werke sind dabei sowohl traditionell als auch radikal: Traditionell, weil es immer noch Wandarbeiten sind – radikal mit Blick auf ihre Form- und Farbensprache. Wie würdest du es selber beschreiben?
Die Bezeichnung traditionell würde ich in dem Zusammenhang nicht verwenden … aber als radikal bezeichne ich mich auf jeden Fall. Ich benutze den Begriff im Sinne von konsequent. Künstlerische Ideen entwickle ich solange, bis ich meine Idee umgesetzt sehe, selbst wenn ich dabei bis an die Grenzen der Belastbarkeit gehe. Wenn ich mich für eine bestimmte Form oder einen bestimmten Farbton entscheide, treibe ich das so weit, bis für mich die gewollte Intensität erreicht ist. So habe ich immer gearbeitet. Als Künstler musst du eindeutig sein und wenn du etwas behauptest, musst du das klar machen – das meine ich mit radikal.

Du bereitest jede Ausstellung in deinem Atelier intensiv vor: Du baust die Arbeiten im Maßstab 1:20 detailgetreu nach und hängst sie modellhaft. Klappt dieses vorbereitende Prinzip immer? Oder musstest du im Nachhinein auch mal improvisieren?
Ich bin Bildhauer, ich entwerfe alle Arbeiten dreidimensional im Modell. Also nicht mittels Zeichnungen, sondern mit kleinen Collagen, die ich dann maßstabgerecht in die Architekturmodelle der jeweiligen Ausstellungsräume einbaue. Dieser für mich äußerst wichtige Prozess läuft langsam und oft über einen langen Zeitraum ab. Der Ausstellungsort wird dabei für mich zu einer Bühne, zu einem Zwischenbereich von Bild und Skulptur, von Abstraktion und Realität, in dem ich frei ausprobieren, entwerfen und verwerfen kann. Sobald der Entwurf steht, geht es an die Umsetzung.

Du beantwortest meine Frage nach der Improvisation nicht …
Nein, das passiert nicht – meine Arbeitsweise lässt keine Improvisation zu.

Werden dabei auch die technischen Aspekte der Räumlichkeiten bedacht?
Unbedingt. Die meisten meiner Werke entstehen so, wie ich es gerade beschrieben habe. Bei den Planungen beziehe ich so viele Faktoren wie möglich ein, wie die Größe der Räume, die Beschaffenheit von Wänden und Boden, aber auch technische Aspekte, wie die Installation der Werke und die Lichtführung.

Nun zu deinen Anfängen und künstlerischen Wurzeln: Du kommst aus dem stark durch den Barock geprägten Oberschwaben. Was hat dich ausgerechnet in dieser Umgebung dazu gebracht, ein so minimalistisch und radikal arbeitender Künstler zu werden?
Du planst ja nicht, Künstler zu werden, schon gar nicht ein Minimalist. Du wirst es. Ich bin in dieser Barockgegend aufgewachsen, ich habe das inhaliert, verinnerlicht. Der Barock hat eine extrem sinnliche Komponente, an der ich meine Gedanken und Vorstellungen entwickeln und vor allem schärfen konnte.
Das barocke Konzept des Gesamtkunstwerks, also das Verschmelzen von Architektur, Skulptur und Bild gehört ebenso selbstverständlich zu meinem Werk wie sein bühnenhaftes Verständnis von Welt – eine Verbindung von echtem Raum und räumlicher Illusion.

Warst du in diesem Umfeld als junger Mensch nicht isoliert mit deinem Wunsch, Künstler zu sein?
Ich wusste schon als Kind, dass ich Künstler werde. Obwohl ich keine konkrete Vorstellung davon hatte, was das bedeuten soll. Außerdem komme ich vom Land. Natürlich bist du dort auf eine gewisse Weise isoliert, wenn du anders bist. Und ich war mit Sicherheit anders. Das ermöglichte mir aber auch, in meinem Anderssein ungestört meine eigene Welt aufbauen zu können. Ich denke daher, dass es für mich eher ein Vorteil war, auf dem Land aufzuwachsen. Ich hatte dort weniger Ablenkung als in einer Großstadt. Es gab für mich keine andere Möglichkeit, als mich kreativ zu äußern. Das war absolut alternativlos, alles andere hätte mich nicht interessiert.

Gab es Menschen, die dich besonders beeinflusst oder unterstützt haben?
Ja, die gab es … mein direktes Umfeld, Familie und Freundeskreis, hat mich von Anfang an unterstützt. Ich habe dann auch sehr früh begonnen, regionale Künstler zu besuchen. Es hat mich fasziniert, sie in ihren Ateliers zu treffen.

Und später hast du dann in Stuttgart bei Professor Jürgen Brodwolf das Studium aufgenommen. Dieser entstammt dem gedanklichen Umfeld von Joseph Beuys und verkörpert auf den ersten Blick einen anderen künstlerischen Standpunkt: eine figurative, gestische Kunst, die den Fokus ganz anders legt – auf den Menschen und sein Wesen. Wie sah da der Austausch aus?
Auf der Kunstakademie musste ich erst eine Grundklasse durchlaufen. Dort bestand der Zwang figurativ zu arbeiten, das habe ich kategorisch verweigert. Anschliessend hatte ich zwei Möglichkeiten: In eine abstrakt arbeitende Bildhauerklasse zu gehen, deren Leiter ein am Bauhaus orientierter Steinbildhauer war, oder in die Klasse Brodwolf. Ich habe mich dann für Professor Brodwolf entschieden, weil seine Studenten für mich die interessanteren Typen waren. Die Kunstakademie hatte zu dieser Zeit eine sehr gute Stahlwerkstatt, in der wir arbeiteten. Und Stahl ist ja bis heute mein wichtigstes Arbeitsmaterial.
Jürgen Brodwolfs künstlerisches Werk war das exakte Gegenteil von dem, was ich machen wollte. Aber wie er mit seinen Studenten umgegangen ist, wie er Gespräche geführt hat und seine konsequente humanistische Haltung haben mich sehr interessiert. Ich fand das so spannend, so anders. Was seine Kritik an meiner Arbeit anging, hat er sich ziemlich zurückgehalten. Dennoch hat er respektiert und unterstützt, was ich gemacht habe. Er hat mich relativ frei arbeiten, meine eigenen Ideen entwickeln lassen, was damals extrem wichtig für mich war. Bis heute bin ich ihm dankbar dafür. Ich habe mich dann relativ schnell räumlich von der Kunstakademie wegbewegt und mein eigenes Atelier außerhalb angemietet.

Das war dann in den 80er Jahren. Wie kamst du mit der künstlerischen Sprache dieser Zeit zurecht?
Die Ästhetik der 80er Jahre, die Zeit, in der ich studiert habe, war nicht so mein Ding. Ich wollte darauf nicht aufbauen und mußte selber etwas finden. Ich habe dann alles weggeräumt, was mich gestört hat und habe dabei die Leere für mich entdeckt, die bis heute für mein Werk prägend ist.

Die damalige Kunstszene war bestimmt deutlich anders als die unserer mediengeprägten Zeit heute – wie fand man sich zurecht, wie funktionierte der Informationsaustausch?
Damals habe ich versucht, von Kollegen zu lernen, die schon weiter waren. Deren Umfeld, Arbeitsweisen, mit wem sie wann und wo ausgestellt haben, habe ich mir exakt angesehen – ich kannte viele Biografien auswendig. Ich besorgte mir Ausstellungsverzeichnisse, die ich von der ersten bis zur letzten Seite las. Besonders wichtig und im Grunde auch die einzige Möglichkeit, um an Informationen zu kommen, waren die verschiedenen Kunstzeitschriften, national wie international. Es gab ja noch kein Internet. Alle Kunstmagazine, die ich auftreiben konnte, habe ich aufgesogen und versucht, die aus meiner Sicht interessanten Informationen herauszuholen. Der Kunstbetrieb und der Kunstmarkt waren damals ja noch recht überschaubar.

Du hast bereits erwähnt, dass dein erstes Atelier außerhalb von der Kunstakademie war, in der Stadt Fellbach. Auch deine erste Ausstellung fand dort statt. Wofür war sie rückblickend für dich vor allem wichtig?
Fellbach ist eine kleine Stadt nahe Stuttgart mit einem eigenen Kulturbetrieb. Der damalige Kulturamtsleiter war sehr jung und wir haben uns angefreundet. Er war auch einer der ersten, der mich in meinem Atelier besucht und mit mir dann meine erste Einzelausstellung in der Städtischen Galerie Fellbach organisiert hat.
Für mich war das ein Testlauf. Als junger Künstler, der frisch von der Akademie kommt, will man alle Barrieren und Hürden einreißen und nur in riesigen Dimensionen arbeiten. Ich wurde dann sehr schnell mit der Tatsache konfrontiert, dass das Wunschdenken ist und vieles einfach nicht geht, zumindest nicht gleich. Aber diese Ausstellung mit allem was dazugehört zu stemmen, war für mich zum richtigen Zeitpunkt eine tolle Herausforderung und Aufgabe – eine Zeit, an die ich mich sehr gerne erinnere.

Auch Ausstellungseröffnungen gehören dazu. Kann man einen Vergleich ziehen zwischen Ausstellungseröffnungen damals und heute?
Ausstellungen und Vernissagen sind nach wie vor wichtig, sehr sogar. Früher sind die Leute noch mehr zu den Ausstellungen gegangen, weil es sonst keine andere Möglichkeit gab, sie zu sehen. Heute kannst du von zuhause aus jede Ausstellung dieser Welt im Internet sehen.
Meine Eröffnungen sind mir sehr wichtig, da ich einen kompakten Sammlerkreis habe. Mit den meisten verbindet mich eine persönliche Freundschaft. Ihr Feedback bedeutet mir viel.

Du hast schon früh deine radikale künstlerische Position deutlich gemacht – eine Position, die damals vielleicht noch nicht so populär war wie heute. Wie konntest du in deinen Anfängen Menschen von deiner künstlerischen Perspektive überzeugen und den Sammlerkreis, wie du ihn beschrieben hast, aufbauen?
Im Rückblick kann ich sagen, dass mein Weg äußerst mühsam, aber geradlinig und mit viel Ausdauer verbunden war. Als Künstler darf man es nicht eilig haben. Meinen Werdegang kann man in meinen retrospektiv angelegten Katalogen ganz gut nachvollziehen. Beim Durchblättern ist deutlich zu sehen, dass die ersten Verkäufe oder Ausstellungen in Süddeutschland und dann in der Schweiz und Österreich stattfanden. Erst im Laufe der Jahre wurden die Projekte und damit auch die Sammler überregionaler und schließlich überwiegend international.

Dafür bedarf es auch der Galerien …
Ja, meine Galerien sind mir sehr wichtig. Ich sehe uns als ein großes Team mit gemeinsamen Zielen.

Auf den ersten Blick sind deine Arbeiten stark visuelle ästhetische Erlebnisse, sehr intensiv und unheimlich klar in Bezug auf ihre Form- und Farbensprache. Im Hinblick darauf, dass auch heute viele Künstlerinnen und Künstler gesellschaftspolitisch Stellung beziehen, wie ordnest du deine künstlerische Position ein?
Meiner sozialen Verantwortung als Künstler bin ich mir bewusst. Alle Werke sind visuelle Erlebnisse und Aussagen, die immer in einem aktuellen Zeitbezug stehen. Schon früh habe ich verinnerlicht, dass alles der Form unterliegt, ohne Form geht nichts. Und dass jede Kunst in einen gesellschaftlichen Kontext eingebettet ist.

Somit positionieren sich Künstlerinnen und Künstler deiner Meinung nach automatisch. Inwiefern trägst du denn zu diesen Diskursen bei?
In den sozialen Medien versuche ich keine tagesaktuellen Themen zu kommentieren. Nicht, weil es mich nicht interessiert, sondern weil ich es als Künstler als wichtig empfinde, dem Zuviel an Bildern und Nachrichten knappe und präzise gesetzte Informationen entgegenzusetzen – das reicht. Ich verstehe meine Werke als Stellvertreter unserer Gegenwart, in der Strukturen und Standards bewusst wiederholt werden.

In dem Sinne: Ist Kunst Freiheit oder Notwendigkeit, ein Zwang, für dich? Und wie sieht die praktische Handhabung dessen im Alltag aus?
Für das Administrative und Organisatorische habe ich ein sehr gutes Team. Das ist wichtig, da die bürokratischen Anforderungen an Künstler, besonders sobald sie international arbeiten, extrem hoch sind.
Freiheit in jeglicher Form war und ist für mich das Wichtigste. Das ist auch der Grund, warum ich diesen Beruf ausübe. Trotzdem versuche ich mit meiner Kunst ständig, die Grenzen der Freiheit auszuloten: Was ist möglich, was nicht? Wie weit kann ich gehen? Ich lege so meinen Bewegungsrahmen fest, in dem ich lebe und arbeite. Vielleicht ist dieser von mir abgesteckte Handlungsraum sogar bewusst das, was ich brauche, um Kunst zu machen.

Dieses Grenzen-Ausloten und ein Zersetzen der Gegenwartskultur war auch im 20. Jahrhundert ein Thema der Avantgarden. Inwiefern sind diese Motive für dich noch von Bedeutung?
Die Gesellschaft zersetzt sich schon von alleine, da muss man nichts zu beitragen. Kunst zu machen ist ja genau das Gegenteil: es bedeutet etwas Neues zu schaffen. Der Glaube an einen radikalen künstlerischen Neubeginn ist heute kein großes Thema mehr. Meiner Meinung nach hat diese Utopie sich in den letzten Jahren gegen sich selber gerichtet und hat die Kunst von dem Zwang zur Erneuerung befreit. Das empfinde ich in ihrer Konsequenz als viel radikaler.

Inwiefern beeinflussen Medien wie Instagram dein Werk und deine Arbeitsweise?
Ich arbeite mit Instagram, aber das beeinflusst mein künstlerisches Werk in keinster Weise. Dem kann man sich heute bei aller Kritik kaum noch entziehen. Es gibt kein anderes Forum, in dem sich Bilder so schnell in der ganzen Welt verbreiten. Das ist eine unglaubliche Vorstellung. Ich kann für mich noch nicht sagen, wohin das führt …

Warum empfindest du die Nutzung dieses Mediums als wichtig?
Instagram gehört zur heutigen Zeit dazu, da es unsere Wahrnehmungsgewohnheiten exakt spiegelt: Die frontale Ausrichtung der einzelnen Bilder auf dem Display entspricht der Tendenz zur vereinfachten Darstellung unserer Kultur, sodass der Überfluss an oft sinnlosen Informationen schnell und oberflächlich aufgenommen werden kann.
Ich nutze diese Plattform, um meine künstlerische Idee kommentarfrei zu verbreiten – das finde ich für meine Arbeit sinnvoll.

Noch einmal zurück zur Kunstgeschichte … gibt es ein bestimmtes Werk, das dich besonders berührt? Und wenn ja, warum?
Klar gibt es diese Werke, sogar einige. Ich denke, dass jeder Künstler drei bis vier Arbeiten kennt, die ihn extrem berühren oder verunsichern. Wenn ich jetzt eines nennen soll, dann wäre das für mich eine Atelieransicht von Gustave Courbet aus dem Jahre 1855. In diesem Bild steckt so viel, was den Kosmos eines Künstlers ausmacht: die Intimität des Ateliers, seine innere Welt und die reale äußere Welt, mit der jeder Künstler konfrontiert ist. Also alles, was seine künstlerische Arbeit bedingt und definiert. Die Szenerie ist so auf den Punkt gebracht, dass es heute noch absolut aktuell ist.
Wenn ich mir das Bild verinnerliche, versuche ich immer, mich als Künstler dazu in Bezug zu setzen.  Wo stehe ich? Man könnte an dieser Stelle sogar auch einen Vergleich zu einem Instagram-Account ziehen, der von vielen für genau so eine Positionierung nach außen genutzt wird.
Courbet hat diese Frage für sich in dem Gemälde beantwortet. Es ist einfach alles drin – ein großartiges Werk.

Was empfindest du, wenn deine Werke verkauft werden?
Eine Arbeit zu verkaufen, verstehe ich als Tausch. Es hat auch etwas mit Vertrauen zu tun.

Verändert sich die Beziehung zu deinen Werken mit der Zeit? Benötigst du eine gewisse Distanz, wenn Werke dein Atelier verlassen?
Nein, es verändert sich nichts mit der Zeit, auch nicht in Bezug zu meinem früheren Werk. Als ich, wie eingangs erwähnt, meinen Weg nochmal gedanklich nachvollzogen habe, wurde mir klar, dass jede Arbeit, die ich geschaffen habe, für mich den gleichen Stellenwert hat. Es gibt keine einzige, die nicht auf irgendeine Weise notwendig war.
Jedes Werk hat seinen Stellenwert und seine Position in der Gesamtschau und ich würde auch jeden Schritt nochmal genau so machen. Distanz gibt es daher zu keiner meiner Arbeiten. Ich habe einige Favoriten, die für mich persönlich besonders wichtig waren, oder sind. Das liegt aber meistens an der speziellen Geschichte, mit der sie verbunden sind.

Wie wird dann die Entscheidung getroffen, eine Werkgruppe abzuschließen?
Das ist eine schwierige Frage. Oft war es so, dass ich sehr schnell parallel neue Ideen entwickelt habe. Das Neue war für mich dann immer spannender, sodass mich die Arbeit an den vorhergehenden Werkgruppen nicht mehr interessiert hat, was manchmal das vorläufige Ende einer Reihe bedeutet hat. Das hatte sicherlich auch damit zu tun, dass es mir anfangs schwer fiel, meine gegensätzlichen Serien gleichzeitig zu bearbeiten.
Die viel interessantere Frage ist doch, warum ich eine Werkgruppe wieder aufgreife, wie die Monoform. Diese Werkgruppe habe ich vor über 20 Jahren entwickelt, aber aus irgendwelchen Gründen nicht weitergeführt. Vor einigen Jahren habe ich sie dann wieder aufgegriffen, mit anderen Mitteln bearbeitet, intensiviert, in einen anderen Zusammenhang gestellt und es hat wieder gepasst.

Wir haben vorhin schon über Freiheit und Zwang als Künstler gesprochen: Glaubst du, du kannst irgendwann aufhören, Künstler zu sein?
Wozu, was soll ich dann machen? Nein, diese Frage wird sich nicht stellen und ich wüsste auch nicht, wann das sein sollte (lacht). Also, nein, die Frage stellt sich eindeutig nicht!

Ich danke dir vielmals für dieses Gespräch.

2018

Goodman, Jonathan: New York: Gerold Miller - Cassina Projects, Sculpture Magazine, 2018

June 2018

The German sculptor Gerold Miller lives and works in Berlin. This show, his first in the U.S., offered an anthology of works for which he is well known in Europe. Ostensibly, these sculptures veer toward Minimalism, but they are more deeply connected to theory than works from the American movement, even if this tie is downplayed and hard to uncover. Located somewhere between sculpture, painting, and architecture, the pieces can seem arbitrary and impersonal, even cold. But they are extremely effective, in large part because of Miller’s interest in theory. His sculptures are about sculpture; and his painting- like reliefs are about painting. This investigation into the fundamental elements of sculpture is similar to that of Josef Albers, another German who looked at art with exploratory detachment.

To some extent, Miller takes an interest in the architectural support of the wall, which he exposes to reveal the façade behind the work of art. In instant vision 44 (2008), a large sheet of lacquered aluminum is divided into grayish and whitish halves. The gray portion, on the left side, frames an open circle in its upper half, while its bottom has been lacquered pink; on the right, a smaller cut circle at the bottom dis- closes the wall behind the six-inch- deep relief. instant vision 44 manages to accommodate painting, sculpture, and architecture in an unorthodox and probing way. Though it possesses a Bauhaus simplicity and functionalism, it could never have been made during the Modernist period—it is too stark and muscular and self-referential. In section 7 (2017), a diamond-shaped piece of black- lacquered aluminum, the bottom corner abruptly cuts off. It might be a work by Ellsworth Kelly, were it not for the blunt directness. Objects like this are both self-referential and self-sufficient, and even though Miller works repetitively with sequences of similar forms, it is not easy to see them as a group.

Verstärker 28 (2017) consists of a stainless steel plank that rises vertically from two stainless steel supports placed at right angles to each other. All of one piece, the work is a simulacrum of the corner of a room, freed from walls. In English, the title means “amplifier,” which forces one to wonder what exactly is being amplified. Or it might be that the shape itself is based on an amplifier. In either case, the sculpture’s mean- ing does not move much beyond the perception of its parts—further support for the argument that Miller primarily engages the mind. North Americans, who cling to expressionism in all forms, may not feel comfortable with works that reject the putative joys of untrammeled feeling. But this would miss the point. Miller is presenting a nearly Platonic view of art, with the forms becoming articles of abstract argument. As such, they are compelling, free of emotional intonation, and intellectually unalloyed, a corrective to romanticism based in finely adjusted, impartial articulations.

Jonathan Goodman

Vo, Nhat: Gerold Miller, Minimalissimo Magazine (Online magazine), 2018

August 2018

For minimal art, criticisms usually surround the topic of shallowness, laissez-faire, as well as the depletion of ideas. Artistic dialogues then become tools to disregard formal arts in the contemporary world. However, for many artists such as Gerold Miller, legacy and consistency is a way to combat dismissive notions.

Born in Altshausen and now based in Berlin, Germany, Gerold Miller is known for sharp edges in his creations, with geometric forms that create tonal difference on surfaces. His sculptural paintings act more as objets d’artrather than decorative canvas for spaces. With a signature of high-gloss car lacquer imposed on his work, the arts become a reflective agent that transforms space while remaining a modest composure on blank walls. The idea of spatial transformation is also echoed in the scale of Miller’s work, where they merge with respective platforms to become the platforms themselves. The negotiations of two surfaces give a visual depth and effects that go beyond monochromatic blocks.

In a way, Miller’s signature of high tech materials that originate in industrial production, as Art Basel presented, resonates with his background in terms of creating. The Bauhaus style, with simple geometries and basic colours, is strongly present in his work, only to be broken by his own rules to produce more fitting visualities for contemporary contexts. Gerold Miller’s work cannot be viewed individualistically; they are a collective vision, where his career is laid bare, minimal, and wholesome on a timeline of artistic practice.

2017

Blouin Artinfo International: Illustrating Contemporary Culture. Gerold Miller: Cassina Projects, New York, Bluoin ArtInfo, 2017

 

December 2017

Taking place in New York at present is the inaugural solo exhibition of Gerold Miller at the Cassina Projects gallery. The Berlin-based artist showcases his major works from 2007 onwards in this exciting exhibition, which ends on December 23, 2017.

Charting the course of artistic research in which the viewer has not only played a role of a critical entity but an active participant, the conversation and serial nature are seen as part and parcel of Miller’s art. His paintings and sculptures expand over the traditional sense and are based on the premise that his art is as-yet-unformed sculptural space and project surface. Every work is in this exhibition is unique and changes in material, color and size as time passes by.

Series like instant vision, set and section oscillate between abstraction and reality, content and non-content, picture and object. Their frontal orientation accords with the surface aesthetic nature of our visual culture. Random impressions reflect in their perfectly hand lacquered monochrome surfaces. The void of monochrome is turned into the protagonist, representing everything and nothing, while the interplay of matte and glossy lacquer or contrasting color give rise to a virtual space behind the picture plane. Gerold Miller has exhibited in many of the leading institutions worldwide including Nationalgalarie, Berlin, and Louisiana Museum of Modern Art, Kuntsmuseum, Stuttgart and other galleries and museums around the world.

Dorfi, Gerhard: Gerold Miller. Industrial Chic als Schule des Sehens, Der Standard, 08.2017

August 2017

Auf Hochglanz polierte Objekte des deutschen Künstlers in der Galerie Nikolaus Ruzicska Wie lassen sich die Grenzen traditioneller Malerei erweitern, um eine neue Schule des Sehens zu ermöglichen? Diese künstlerischen Fragestellungen beschäftigen den Berliner Objektkünstler Gerold Miller auch in seinen zwei jüngsten Werkgruppen: postminimalistischen Wandobjekten (Section) und frei stehenden Skulpturen (Verstärker). Section – Verstärker heißt denn auch die Ausstellung in der Galerie Ruzicska. Der 1961 im schwäbischen Altshausen geborene Miller studierte in den 1980ern Bildhauerei in Stuttgart. Diese Zeit des postmodernen Anything Goes hat ihn seinen eigenen Stil finden lassen, bei dem die kunstgeschichtlichen Referenzen von der konstruktivistischen Malerei über Objekte und architektonische Eingriffe der Minimal Art bis zu den strengen, geometrischen Formen in Farbfeldern bei den Neo-Geos reichen. Werk, Fläche und Raum sind die zentralen Kategorien von Millers Arbeiten, die mittels radikaler Reduktion, Monochromie, Farbkontrasten und Wiederholung ihre Wirkung erzielen. In Salzburg stechen zuerst die drei großformatigen Objekte der Werkgruppe Section ins Auge, die von der Form des Vierecks ausgehend, auf deren abgeschnittene Spitze gekippt sind, also de facto als ein Fünfeck mit zwei monochromen Flächen erscheinen, die in Rot und Blau, Schwarz und Weiß sowie mattem und glänzendem Schwarz gehalten sind. Sie bestehen aus Aluminium mit aufgetragenen Lackschichten – mitunter benötigt der Künstler dafür bis zu zehn verschiedene, um die nötige Transparenz und Tiefe zu schaffen. Wobei in der industriellen Präzision und Anmutung der Objekte klar wird, dass hier eine Kooperation Millers mit zwei Handwerkern notwendig ist: dem Schlosser, der die Form herstellt, und dem Lackierer, der die Endfertigung vornimmt, natürlich basierend auf Ideen, Skizzen und Vorarbeiten des Berliners. Räumliche Wahrnehmung Möglich werden die Kunstwerke aber nur im Zusammenspiel mit dem Wissen und der Experimentierfreude der Kunsthandwerker. Der schöpferische Akt des Künstlers wird zum Spiegel und zur Apotheose, also „Verstärkung“, einer (post)industriellen, arbeitsteiligen Gesellschaft, in der Objekte normalerweise auf Hochglanz poliert sind. Das gilt auch für die den Galerieraum definierenden Verstärker-Teile: aus drei Streben bestehende, frei platzierte Skulpturen, die ihre Wirkung auf die räumliche Wahrnehmung des Betrachters aus den Komponenten Höhe, Länge und Tiefe beziehen. Und natürlich aus der Farbgebung, die von glänzend rot lackiert über pink-rot-schwarz lackiert bis zu vergoldetem Messing reicht.

Müller, Jens: Parkhausfarbe im Altbau: Gerold Miller in der Galerie Chouakri, Der Tagesspiegel, 2017

 

Juli 2017

Man reibt sich verdutzt die Augen, zumindest einen Moment lang. Okay, Mehdi Chouakri hat also wie so viele Galeristen Mitte den Rücken gekehrt und sich auf den gar nicht so langen Weg in den Berliner Westen gemacht. Er habe etwas mit dem rauen, brutalistischen Charme der fünfziger, sechziger, siebziger Jahre im Sinn gehabt, ein umgenutztes Industriegebäude vielleicht. Solche Architektur spricht viele Galeristen an. Sie haben sie zum Beispiel in der Potsdamer Straße gefunden, auf dem ehemaligen TagesspiegelGelände. Aber wie in aller Welt konnte es dazu kommen, dass Mehdi Chouakri nun in zwei Gründerzeit-Altbauten gelandet ist, am Wilmersdorfer Fasanenplatz und in der Charlottenburger Bleibtreustraße? Bürgerlicher geht es kaum.

Da lacht Chouakri – früher hätte man gesagt: verschmitzt. Das macht er überhaupt die ganze Zeit. Es hatte etwas mit Timing zu tun, mit einem auslaufenden Mietvertrag in der Invalidenstraße, mit Möglichkeiten und Kontakten. Unter der Adresse in der Bleibtreustraße residierte bis vor drei Jahren Hans-Peter Jochum mit seiner Design-Galerie. Er ist ein paar Häuser weiter gezogen, eine Hand hatte er aber noch auf der Immobilie und konnte sie nun an Mehdi Chouakri weitervermitteln. Man kennt sich halt.

Die Nachbarschaft an den beiden neuen Standorten könnte kaum besser sein. Das war Chouakri wichtig. Paris habe Saint-Germain, London die Bond Street, meint er, Berlin dagegen verfüge nicht über das eine, definitive Kunstquartier. Aber in der Bleibtreustraße sitzt mit Max Hetzler immerhin einer der führenden Galeristen der Stadt. Und im Haus am Fasanenplatz (wo Chouakri zum Gallery Weekend im April mit Charlotte Posenenske eröffnete), in dem einst Heinrich Mann wohnte, haben auch die Galerien Fahnemann und Klaus Gerrit Friese ihre Adresse. Und was das raue Ambiente angeht – das lässt sich herstellen. Mit Neonröhren an der Decke und Parkhausfarbe auf dem Boden. Eine Nachbarin habe sich gleich beschwert, dass es bei ihm so ungemütlich aussehe. Ein größeres Kompliment hätte sie Chouakri ihm kaum machen können.

Zwei Ausstellungsräume, zehn Gehminuten voneinander entfernt

Tatsächlich sind die Eingriffe, die Architektin Johanna Meyer-Grohbrügge vorgenommen hat, so einfach wie subtil. Sie gestaltete auch den Berliner Standort der Julia Stoschek Collection in der Leipziger Straße, im früheren tschechischen Kulturzentrum der DDR. Mit dem von Chouakri angestrebten speziellen Charme kennt sie sich aus. Vor allem haben die beiden Mauerwerk, Beton- und Stahlträger freigelegt, Zeugnisse der nachgründerzeitlichen Veränderungen. In der Bleibtreustraße fand sich Chouakri hingegen mit dem Vorgefundenen ab, nur die obligaten Neonröhren wurden an die Decke geschraubt.

Zwei Ausstellungsräume, zwei Orte, zehn Gehminuten voneinander entfernt – das legt die parallele Bespielung mit zwei nicht notwendig aufeinander bezogenen Künstlern nahe, wie das der neue Nachbar Max Hetzler (in der Bleibtreu- und der Goethestraße) regelmäßig praktiziert. Mehdi Chouakri zeigt am Fasanenplatz: Gerold Miller. In der Bleibtreustraße: Gerold Miller. Allerdings gibt es zwei Ausstellungstitel, „amplificateur d’espace“ (Fasanenstraße) und „capteur d’instant“ (Bleibtreustraße) – Mehdi Chouakri ist gebürtiger Franzose.

Gerold Miller, Jahrgang 1961, würde man nicht unbedingt in die Konzeptkunstschublade einsortieren, geht aber als Bildhauer sehr konzeptuell vor. So sind die unterschiedlichen Ausstellungskonzepte an den beiden Orten sofort augen- und sinnfällig. Die „Verstärker“ genannten, an den geometrischen Minimalismus eines John McCracken erinnernden, frei stehenden Aluminium-Skulpturen (Bleibtreustraße) hatte Miller schon vorher im Repertoire: Es ist immer die gleiche L-Form mit zusätzlicher Stütze, wobei die nüchterne Beschreibung der Schönheit und Eleganz der Proportionen in keiner Weise Rechnung trägt. Miller variiert sie im Maßstab und in der Oberflächenbehandlung, drei der Skulpturen sind spiegelpoliert, eine ist mattschwarz lackiert (Preise zwischen 19 500 und 39 000 Euro).

Herzstück der Schau ist Hommage an Malewitsch

Miller lässt sie auch in bunten Versionen herstellen, aber hier bei Chouakri beschränkt er sich auf Schwarz, Weiß und die Aluminium-Farbe. Das schärft den Blick für Form und Materialität. Auf den Gegensatz zwischen der kalten Perfektion von Millers Kunst (eine Fachfrau aus der Autoindustrie habe den Lackierungen einmal Rolls-Royce-Qualität attestiert) und der kalkulierten Rohheit der Galeriearchitektur angesprochen, lacht Chouakri.

Was die beiden Ausstellungen unterscheidet: Am Fasanenplatz stehen allein die von Johanna Meyer-Grohbrügge in den Raum gestellten Wände frei, an die Miller seine Arbeiten der Serien „Monoform“, „section“ und „set“ gehängt hat. „set 410“ und „set 411“ (je 21 500 Euro) – in Hard-Edge-Manier, also mit messerscharfen Grenzen teils hochglänzend, teils mattschwarz lackierte Edelstahlflachware im Gemäldemaß von 85 mal 68 mal 4,5 Zentimetern – verhalten sich zueinander wie Positiv und Negativ: Miller und Chouakri haben sie auf die zwei Seiten einer Wandscheibe gehängt.

Das Herzstück der Schau ist eine Hommage an Malewitsch: ein hälftig schwarz und weiß lackiertes Aluminiumquadrat, übereck gekippt und angeschnitten („section“, für 130 000 Euro an eine süddeutsche Sammlung verkauft). Sein stolzes Maß von 253 mal 338 mal 12,8 Zentimetern dürfte das Maximum dessen definieren, was Chouakri in seinen neuen Räumen mit jeweils knapp 50 Quadratmetern zeigen kann. Am Ende ist ein Ladenlokal in einem Altbau eben doch keine Industriehalle. Aber auf die Größe komme es nicht an, auch nicht bei der Kunst. Mehdi Chouakri lacht noch einmal verschmitzt.

2016

Miller, Gerold: Alte Meister, von Neuen geliebt, Monopol Magazine, p. 36, 2016

September 2016

Enrico Castellanis „Superfice Angolare Nero“ entstand 1960, ein Jahr bevor ich geboren bin. Zum ersten Mal sah ich das Eckbild 1995 in der Villa Merkel in Esslingen. Die damalige Direktorin Dr. Renate Wiehager hatte dort von 1992 bis 1999 eine sensationelle Ausstellungsreihe zur Kunstrichtung Zero in Europa kuratiert, lange bevor diese Bewegung so populär wurde.

„Superfice Angolare Nero“ hing 1995 in der Esslinger Ausstellung über Zero in Italien. Der von Lucio Fontanas Werk beeinflusste Enrico Castellani gründete zusammen mit Piero Manzoni in Mailand die avantgardistische Zeitschrift „Azimuth“ und die gleichnamige Galerie. Die existierte zwar nur von 1959 bis 1960, aber es fanden dort einige radikal moderne Ausstellungen mit jungen Künstlern wie Yves Klein, Heinz Mack und Gianni Colombo statt, die versuchten, mit kinetischen oder konzeptuellen Bildideen die informelle Malerei zu überwinden.

Und nun saß Enrico Castellani am Abend vor der Eröffnung völlig entspannt und in einen lässigen Trenchcoat gekleidet in der ehemaligen Küche der Villa Merkel. Diese Küche war damals ein kreativer Ort, an dem sich viele Künstlerfreunde, Kuratoren und Sammler trafen. In endlosen Nächten wurde bei viel Alkohol und Zigaretten diskutiert und spannende Projekte besprochen. Dort kamen Castellani und ich miteinander ins Gespräch über Azimuth, seine künstlerische Arbeit und Manzonis „Socle du monde“, der auch in der Ausstellung zu sehen war.

Von Castellanis „Superfice Angolare Nero“ war ich sofort beeindruckt. Ein in einer Raumecke platziertes Bild, eher eine Installation. Mich hat das lange beschäftigt: Warum hat er das Bild in die Ecke und nicht auf die Wand gesetzt? Dieses tiefe Schwarz! Auch ich habe meine Werke immer wieder schwarz gestrichen oder lackiert. Die referenzlose Farbe lenkt kaum von der Form ab. Ich verwende Schwarz bis heute sehr viel, da mir die Farblosigkeit hilft, immer wieder den Stand meiner Arbeiten zu überprüfen.

Die Auseinandersetzung mit Zero und der Kunst um 1960 wurde für mich dann sehr wichtig: Die radikale Umwertung von überkommenen Kategorien und den herkömmlichen Grundlagen der Produktion, das neue Verständnis von bei der Präsentation von Kunst und die Freiheit im Umgang mit ihr. Gleichzeitig haben sich die italienischen Zero-Künstler und speziell Enrico Castellani mit den traditionellen Themen der italienischen Kunstgeschichte wie Proportion, Komposition, Schönheit und dem Harmonie auseinandergesetzt. Das war schon sehr cool, wie unangestrengt die Italiener sich in den 60ern über den Gegensatz von Tradition und Avantgarde einfach hinweggesetzt haben.

Als Bildhauer fasziniert mich an „Superfice Angolare Nero“ vor allem das Verhältnis von Bild, Wand und Raum. Die frühen Werke von Castellani ähneln noch sehr den „Tagli“ von Fontana: Die Beschäftigung mit der Leinwand, der Monochromie und den Faltungen. 1959 entstanden Castellanis erste Superficie, in denen er die einfarbige Bildfläche durch unter der Leinwand angebrachte Nägel strukturierte und eine Malerei ohne Malerei schuf. 1960 entstand dann dieses Eckbild, mit dem er den Raum für sein künstlerisches Werk erschloss. Man könnte einen großen Bogen von Enrico Castellani zu Kasimir Malewitschs „Schwarzem Quadrat“ von 1915 schlagen: das Rätsel des schwarzen Bildes, das bei Malewitsch wie eine Ikone an der Wand hing und sich durch Castellani von der Wand befreit den Raum erobert hat.

Mit meinen flachen Skulpturen versuche ich etwas Ähnliches und gehe zugleich in eine ganz andere Richtung. Mir geht es um Formen der Bildfindung und Fragen nach Bildlichkeit. Nur dass ich als im minimalistisch-konzeptuellen Bereich arbeitender Künstler nicht vom Bild ausgehe, sondern es erarbeite, indem ich mich aus größtmöglicher Distanz darauf zu bewege. Meine Arbeiten markieren den Grenzbereich von Skulptur, Wandfläche und Malerei. Sie beinhalten alle Elemente eines Bildes: Komposition, Tiefe, Format und Farbe. Aber sie sind in ihre Komponenten zerlegt und auf einfachste Weise wieder zusammengesetzt. Bis heute verfahre ich so und arbeite an der Idee vom Bild als Raumkonzept.

Luther, Anne: Gerold Miller, Kunsthalle Weishaupt, Ulm, Kerber Verlag, pp. 40 - 48, 2016

Gerold Miller

von Anne Luther

In der dreiteiligen Essay-Reihe „Inside the White Cube“, die 1976 im Kunstmagazin Artforum erschien,1 untersucht Brian O’Doherty die Beziehung von Kunstwerk und Ausstellungsraum und erörtert dabei neuartige Fragestellungen zum Betrachter als wahrnehmendem Subjekt sowie der Wirkmacht des räumlichen Kontextes und seiner hervortretenden Präsenz innerhalb des Werkes selbst. In der Gegenwartskunst ist der Kontext heute an mehr als nur die Ästhetik und Machtstruktur des „White Cube“ gebunden; relevant sind ebenso die Darstellung und Verbreitung digitaler Bilder online, die sozialen und themenspezifischen Netzwerke der GegenwartskünstlerInnen, zudem die Präsentation und Vertretung durch Galerien und Institutionen. Das Werk einer Künstlerin oder eines Künstlers existiert innerhalb eines vernetzten Zusammenhangs, der ein Licht sowohl auf die menschlichen als auch nicht-menschlichen Akteure innerhalb und außerhalb einer international agierenden Kunstwelt wirft. Zeitgenössische KünstlerInnen sind sich heute der Art und Weise bewusst, wie ihr Werk sowohl im konkreten Raum als auch in seiner digitalen Verbreitung wirkt und arbeitet. O’Dohertys Essay wird somit zu einer historischen Quelle über einen Kontext, der auf den konkreten Raum und eine konkrete Verbreitung begrenzt war. Zu Beginn des 21. Jahrhunderts erfuhr diese Idee eine Erweiterung sowohl in der Theorie als auch in der künstlerischen Praxis und ist heute fester Bestandteil der zeitgenössischen Kunst. Die Aktualität des Werkes von Gerold Miller beruht auf der Fähigkeit des Künstlers, den subjektiven Betrachter einzubeziehen und räumliche Zusammenhänge auf die Ebene digitaler Beziehungen auszuweiten.

Die kunsthistorische Analyse von Millers Œuvre zeigt, dass er seiner Zeit vom Beginn seines künstlerischen Schaffens an voraus war: Das betrachtende Subjekt als kritischer Kontext scheint immer relevant gewesen zu sein. Der Raum, in dem wir sein Werk ins Auge fassen, verändert sich oftmals während des Betrachtens, etwa durch die auf die Wand reflektierte Farbe, aber auch die reine Größe einer Arbeit oder die Rahmung einer Wand. Manchmal sehen wir in einem Werk unsere eigene Spiegelung; ein anderes Mal scheint die Dokumentation des ausgestellten Werks zu einem Teil der Arbeit selbst zu werden. Der Ausstellungsraum erweitert sich auf die digitale Darstellung seiner Arbeiten online. Der Computerbildschirm erleuchtet die Farben in den JPEG-Bilddateien, ganz so, als sei das materielle Kunstwerk für die digitale Betrachtung geschaffen worden. Bei der Besichtigung seiner Werke in einer realen Galerie kann sodann der umgekehrte Eindruck entstehen: Der Künstler verwendet Neonfarben, wie wir sie normalerweise nur auf einem erleuchteten Bildschirm wahrnehmen können, und selbst seine lackierten schwarzen Monochrome erinnern an die Oberfläche eines Smartphones. Miller dehnt die physischen Eigenschaften von Materialität und Darstellung auf die subjektive Wahrnehmung und digitalen Netzwerke aus.

Ein wichtiges und immanentes Thema für Millers Arbeitsweise ist der Raum: ein Bereich mit vier Wänden, einem Innen und Außen, ein Quadrat, ein Rahmen mit unterschiedlichen Möglichkeiten. Seine Arbeiten scheinen stets etwas zu umschließen. Die offene Mitte ist bereits Thema in der frühen Werkgruppe der Anlagen (1989–1995), bis Miller im Jahr 2012 in seiner Serie set das Zentrum mit einer flachen, konsistenten Oberfläche schließt. Millers Anlagen umrahmen die Wand im ganz buchstäblichen Sinne und verwandeln sie in ein Zentrum oder einen reinen, offenen Raum. Der Künstler befreit die Ausstellungswand aus ihrer traditionellen Funktion als Ort der Hängung und Präsentation von Gemälden. Um 1990 beschränkt er in der Werkserie der Anlagen das Konzept der Leinwand als Objekt auf skulpturale Elemente, indem er – quasi die Verfahrensweise abstrakter Malerei nachahmend – Lackfarbe über die Stahlrahmen tropfen lässt. In diesem Prozess der Reduktion eines Raumes auf skulpturale Elemente – bei dem etwa ein Mittelelement die gerahmte Wand innerhalb eines quadratischen Rahmens teilt [Anlage 128, 1996] oder räumliches Gewicht geschaffen wird, indem die Rahmenbreite auf einer Seite verdoppelt und der traditionelle Werkstoff Stahl verwendet wird [Anlage 131, 1996] – schafft der Künstler ein Fundament für die kommenden Jahre seiner künstlerischen Praxis. Millers Fokussierung auf die leere Mitte erlebt in den Serien hard:edged, total object und instant vision eine Fortsetzung, bis er 2012 mit set die radikale Entscheidung trifft, den Raum, den sein Werk bis dahin geschaffen hat, wieder zu schließen. Noch intensiviert wird diese Entscheidung, den leeren Raum in der Mitte eines Werks nun zu schließen, durch die völlige Offenheit seiner ab 2014 entwickelten Werkreihe der Monoformen. Das vollständige Schließen der Lücke ermöglicht es dem Künstler nun, sein Werk restlos zu öffnen: eine radikale Entscheidung, die dazu führte, dass seine künstlerische Entwicklung in eine entgegengesetzte Richtung fortschritt.

In dem Moment, in dem Miller die Mitte seiner Oberflächen schließt, öffnet sich der Fokus bzw. Schwerpunkt auf den neuen, mittels Farbe, Form oder Material geschaffenen Raum. Der Wechsel vom eingefassten Raum (das um das offene Zentrum angeordnete Material) zu einem Raum, der das Werk umgibt (die das Werk umrahmende Wand) erfährt in seinen zwei jüngsten Serien, Monoform und Verstärker, eine weitere Radikalisierung. In den Monoformen wird die gesamte Wand zum Teil des Werkes. Es wird somit eine Offenheit geschaffen, die Möglichkeiten, Mittel oder auch ein Nichts bekundet. Verstärker ist bis heute die einzige freistehende Skulptur in Millers künstlerischer Praxis. Mittels ihrer offenen Struktur, die in Richtung eines umgrenzten Bodens deutet, wobei die einfassenden Winkel die Zeigerichtung eines dritten Balkens in einen vollkommen offenen Raum intensivieren, „verstärkt“ die Arbeit im wahrsten Sinne des Wortes unsere räumliche Wahrnehmung. Indem sie Höhe, Länge und Tiefe zeichnet, veranschaulicht die Struktur aus drei Balken in besonders ausgeprägter Form eine Dreidimensionalität, die allen Arbeiten Millers zu eigen ist. Den Boden des Raums einzurahmen und zugleich auf eine offene Deckenwand zu verweisen, kennzeichnet die beiden Elemente, die in all seinen früheren Serien von Bedeutung sind: die Kohärenz oder Geschlossenheit des Raumes auf der einen sowie die Offenheit oder die endlosen Möglichkeiten auf der anderen Seite. Das Werk Verstärker bringt buchstäblich auf den Punkt, wie jedes Werk zu einer immersiven, ortsspezifischen Installation wird.

Miller zeigt in seinem Werk unendliche Möglichkeiten mit dem Mittel der Wiederholung; dennoch wiederholt er niemals dieselbe Umsetzung. Jede Arbeit ist einzigartig und variiert in Material, Farbe oder Größe. Und jede dieser Arbeiten illustriert, was „kon•temporär“ bedeutet: ein temporales Konzept, das einen Prozess beschreibt, der „mit der Zeit“ geht. Jede Serie basiert auf einem Konzept, das den Raum erkundet und, aufgrund eines nie dasselbe Werk erzeugenden Prozesses, stets auf die Zukunft deutet. Wiederholung führt nicht zu einem identischen Resultat.

Obgleich Miller eine solch mechanische Logik für seine Arbeitsweise übernommen hat, arbeitet er analog. Sein Studium der Bildhauerei an der Staatlichen Akademie der Bildenden Künste Stuttgart beeinflusst ihn bis heute. Miller zeichnet, gleicht ab, versammelt und schneidet Prototypen, entwirft mit der Hand – ähnlich, wie es ein Architekt tun würde. Er benutzt keinen Computer, und er wendet große Sorgfalt und Zeit dafür auf, die Farbe in ihrer eigentlichen, physischen Präsenz in verschiedenen Lichtsituationen sowie auf unterschiedlichen Materialien und in verschiedenen Zusammenhängen zu prüfen und zu verfeinern. Für seine Lackierungen entwickelt er eine spezielle Substanz und Farbe, die seine Arbeiten äußerst widerstandsfähig machen. Die Kraft seiner Farben ist, auch Dank ihres perfektionierten Abgleichs mit den ausgewählten Materialien, fast körperlich spürbar. Und obwohl seine Werke stets recht robust aussehen, wirken sie im selben Moment fragil und empfindlich. Man möchte die Objekte, ihre Oberflächen vor jeder potenziellen Gefahrenquelle schützen. Obgleich sie aus Stahl und Aluminium hergestellt sind, verwandeln sie sich mühelos in kostbare Gegenstände. Die Offenheit, die hart und weich oder stark und zerbrechlich umschließt, macht jedes der Werke zu einem reizvollen Paradigma für das Ganze. Miller arbeitet inklusiv. Sein Œuvre lässt als Parallelen Paarungen zu, die eigentlich als Gegensätze gelten. Welches Merkmal erkennbar wird, hängt von der subjektiven Wahrnehmung sowie dem physischen und digitalen Kontext ab, in dem das Werk betrachtet wird. Indem wir nachvollziehen, dass Millers Werk diese inklusive Ganzheit besitzt, wird deutlich, wie jede einzelne Arbeit sich mit der Zeit (kon•temporär) verändert: BetrachterInnen können an einem Tag das solide, glänzende und schwere Material wahrnehmen und beim nächsten Besuch der fragilen Oberfläche desselben Werkes begegnen. Formale Wiederholungen sensibilisieren uns für Veränderungen von Farbe, räumlichem Kontext und Maßstab. Unterschiede in den einzelnen Werken lassen sich vergleichen, zugleich kann man Vertrautes wiederkennen. Die Beziehung, in die der/die BetrachterIn mit dem einzelnen Werk tritt, erkennt dabei den kon•temporären, langsamen Verlauf an, den diese Arbeitsweise begünstigt, – Wiederholung bedeutet dabei nicht Stagnation; vielmehr ist sie ein Gerüst, das den Wandel noch verstärkt.

Kontextuelle Veränderungen und die Offenheit gegenüber Möglichkeiten sind für Miller auch in Bezug auf seine persönliche Entwicklung als Künstler von Belang. Sein Kunstschaffen beginnt in einem Atelier in einer Lagerhalle, das er mit vier jungen Bildhauern und Malern in Stuttgart teilt. Während der 1980er-Jahre wird sein Werk vom Neo-Geo beeinflusst, einer Kunstrichtung, deren Kennzeichen in Millers gegenwärtiger Arbeit wiederzufinden sind: exakt reduzierte Bildfindungen, die von den KünstlerInnen zugleich in großem Maßstab angefertigt werden. Im Jahr 1977 schuf Olivier Mosset für die Pariser Biennale eine mit einer roten Farbschicht bedeckte wandgroße Malerei; die Dimension der Arbeit und ihre Reduktion auf Farbe und Form kamen für die Besucher so unerwartet, dass die Arbeit während der Ausstellungseröffnung unbeachtet blieb. Eine derartige Radikalität und Hingabe wird bald schon zu einem wichtigen Impuls für Millers Werk, das für nicht-hierarchische Kompositionen und eine Klarheit des Kunstwerks einsteht. In seinem Text „Specific Object“ [auf Deutsch erschienen unter dem Titel „Spezifische Objekte“, Anm. d. Übers.] von 1965 schreibt Donald Judd:

Mindestens die Hälfte der besten neuen Arbeiten, die in den letzten Jahren entstanden sind, gehört weder zur Malerei noch zur Skulptur. Gewöhnlich wurden sie – mehr oder weniger direkt – dem einen oder anderen Bereich zugerechnet. Die Arbeiten sind sehr verschiedenartig, ebenso unterschiedlich sind viele Züge in ihnen, die weder von der Malerei noch von der Skulptur her bekannt sind. Aber es gibt auch Gemeinsamkeiten.“2

Millers Ausrichtung der Malerei stellt für uns auch weiterhin eine Herausforderung innerhalb seines Werkes dar, das zwischen Malerei und Skulptur oszilliert und die Autonomie eines „totalen Objekts“ einfordert, das ungeachtet der Grenzen der herkömmlichen Disziplinen besteht. Künstler wie Gerwald Rockenschaub, der Räume als offene Bereiche für seine Bildkonstellationen betrachtet, prägen seine frühen Arbeiten und künstlerische Erhebung. Peter Halleys HardEdge Malerei, bekannt für ihre formalen Beschränkungen, ihren Farbreichtum und gänzlich ebene Flächen, sind strukturbestimmend für Millers spätere hard:edged-Serie. Heute wird Miller zum Teil von denselben Galerien wie seine frühen Einflussnehmer vertreten, mit vielen von ihnen ist er zudem befreundet. Seine Recherchen als Künstler sind stets auf die internationale Kunstwelt ausgerichtet gewesen – angefangen mit dem Besuch von Ausstellungen in Köln und München, die beide nicht weit entfernt und zu jener Zeit größere Kunstzentren als Stuttgart sind; darüber hinaus beschäftigte er sich intensiv mit den Informationen aus internationalen Kunstmagazinen. Recherche und Interaktion sind für den Künstler von großer Bedeutung, da er sein Werk im „Jetzt“ positioniert, indem er Räume öffnet und in neue Kontexte vordringen will.

Einen wiederkehrenden Bezugspunkt für den Künstler stellt ebenso die kalifornische „Light and Space“-Bewegung dar. Die jedem Einzelwerk innewohnende Energie wird hier mittels der Lichtreflexion von und auf dessen farbintensive Oberflächen sowie durch die Verwendung geometrischer Formen und helle Ausstellungräume sublimiert. Im Los Angeles der 1960er- und 1970er-Jahre entwickeln Künstler wie John McCracken und Larry Bell eine Arbeitsweise, die sich mit dem Einfluss der Installation ihrer minimalistischen Skulpturen auf die subjektive Wahrnehmung derselben befasst. Glanz und Leuchtkraft der Wandreliefs des Künstlers Craig Kauffman positionieren Millers Werk geradewegs in den kunsthistorischen Kontext von Südkalifornien und Los Angeles, dies gilt besonders für seine thematischen Bezugspunkte Rahmen/Relief und Licht/Energie.

Das Werk des Künstlers wuchs parallel zu seinem persönlichen Interesse, einen Ort zu finden, der ihm eine Erweiterung seiner Ideen sowohl in Bezug auf ihren Maßstab als auch ihre Verbreitung erlaubte. Seine Erkundungen als junger Künstler führen ihn von einem engmaschigen Kollegenkreis lokaler KünstlerInnen in Stuttgart und Umgebung hinaus in die offene, weite internationale Kunstwelt. Nach seinem Studium an der Staatlichen Akademie der Bildenden Künste Stuttgart geht er nach Chicago, New York, Paris und Sydney, um seine Recherchen auszuweiten und das soziale und physische Setting der Kunstwerke nachzuvollziehen, die ihn konzeptuell wie strukturell beeinflusst haben. Durch den tieferen Einblick in den natürlichen Werkzusammenhang vermitteln ihm diese sozialen und institutionellen Bedingungen einen Sinn dafür, wo Elemente wie Maßstab, Farbe und Material ihren Ursprung haben. Im Jahr 1989 zieht Miller nach Berlin, eine Konsequenz sowohl aus dem Bestreben, dass er seine Erfahrungen in seinem Werk umsetzen will, als auch aus dem Bedürfnis heraus, einen Kontext für sein Werk zu finden, welcher in diesem komplexen, vernetzten internationalen Kunstbetrieb als Stützpunkt seines Kunstschaffens dienen kann – und dies stets auch mit der Intention, sich und sein Werk zu öffnen und weiterzuentwickeln. Als eine Metropole des internationalen Kunstbetriebs wurde die weite Kunstwelt innerhalb der Berliner Stadtgrenzen erfahrbar. Millers erste Ausstellung in einer großen Ausstellungshalle findet im Jahr 1996 in der Kunsthalle Winterthur, in der Schweiz, statt. Für den Künstler war es von großer Bedeutung, seine Anlagen hier an einem weiträumigen, konkreten Ort zu erfahren, der als Bezugsrahmen für sein Werk fungiert. 2002 sollte ihm mit dieser Rauminstallation in der Einzelausstellung in der Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof, Berlin, sodann internationale Anerkennung zuteilwerden. Die Stadt wurde zu einem Fixpunkt für Millers Entwicklung, die Basis, von der aus er weitere Anregungen für neue Werke aufnehmen konnte.

In Millers Werk sind die Auseinandersetzung mit dem Ausstellungskontext jeder Einzelarbeit wie auch die Einbeziehung der unmittelbaren Umgebung und Subjekte grundlegende Merkmale, die der Künstler auch auf die Verortung seines Kunstschaffens im Kunstbetrieb überträgt. Millers Sensibilität für den Raum, die Nähe zur Vorgehensweise anderer Künstler und seine Angewohnheit, sich auch von anderen Disziplinen inspirieren zu lassen, werden in seiner Ausstellung im Mies van der Rohe Haus in Berlin im Jahr 2014 besonders deutlich. Der Künstler greift in seinen Arbeiten für diese Ausstellung die architektonischen Elemente van der Rohes – eine offene Fensterfront etwa, die auf einen großen Skulpturengarten geht – auf und verstärkt sie. Das Werk set 223 (2014) spiegelt den grünen Garten wider, indem es sowohl die konkrete Reflexion einbezieht als auch in seiner Farbigkeit dem Gras gleicht. Monoform 2 geht durch seine goldene Oberfläche in die offen gestaltete Architektur des Hauses über; ähnlich wie die Fensterfront vermittelt diese Arbeit den Anschein, dass Innen und Außen nicht voneinander getrennt bzw. abgeriegelt sind. Solch ausgeglichene­ Erwägungen räumlicher Interaktion zwischen Kunstwerk und Architektur offenbaren einen fundierten Respekt gegenüber anderen Disziplinen, die grundlegende Aspekte der Objekte, mit denen wir in Berührung kommen, beeinflussen und verstärken.

In einer Zeit, in der die Online-Dokumentation von Arbeiten ein visuelles Verständnis ihrer dreidimensionalen Eigenschaften mittels flacher Bilder projiziert, fasziniert es, dass Miller in jeder Werkserie eine umfassende Ausgestaltung mit zwei- und dreidimensionalen wie auch mit Vektor-Elementen erstellt. Die plastische Oberfläche wird zur 2D-Realität, ähnlich wie der Bildschirm eines Computers oder jegliches Ding, das als digitales Bild wiedergegeben wird. Die Kanten, die Komposition und strukturierten Farben auf dem skulpturalen dreidimensionalen Gegenstand sind flach und formen eine einheitliche Ebene. In manchen Arbeiten von Miller spiegelt ein glänzender, von Hand aufgetragener Lack den umgebenden physischen Raum wider, und die Wahrnehmung eines so in dem Werk existierenden dreidimensionalen, physischen Raumes wird, ähnlich einem zweidimensionalen JPEG-Bild, wieder verflacht. Die Oberfläche wird zu einem Bildschirm, der einen Blick auf die umgebende Realität bietet – sie fungiert als virtuelle Realität, die es den Betrachtern erlaubt, räumliche Wahrnehmung in simulierter Form zu erleben und zu imaginieren. Dabei agiert die glänzende Oberfläche nicht bloß als Spiegel; sie bezieht den Raum mit ein, den sie als Objekt mehr reflektierend denn reproduktiv verändert – das skulpturale Objekt braucht die Vorstellungskraft des Betrachters, um den Effekt der Spiegelung zu vollenden. Das Kunstobjekt als dreidimensionale Skulptur ist nur dann greifbar, wenn wir es in einem konkreten Ausstellungsraum erfahren. Die glatte Oberfläche, die Farbkomposition und die klar definierten Linien und Strukturen sind auf diesem dreidimensionalen Objekt geschichtet, das an der Bestimmung des Raumes, unserer räumlichen Wahrnehmung und der Art und Weise arbeitet, wie wir unsere Körper durch den Raum navigieren, um das Werk von allen Seiten zu betrachten. Ähnlich einem architektonischen Element, das die Körperbewegung und räumliche Wahrnehmung aktiv beeinflusst, verweisen Millers Arbeiten auf Vektor-Tools, die Architekten in Software für digitale Zeichnungen verwenden. Das digitale Bild und seine zweidimensionale Flächigkeit, das dreidimensionale Objekt im Raum sowie Vektor-Elemente in der Ausführung seiner Arbeiten bejahend, schafft der Künstler Objekte, die sich in Bezug auf digitale und physische Kontexte als inklusiv und nicht-restriktiv erweisen.

Das Thema der digitalen und materiellen Darbietung und Verbreitung wird häufig angesprochen in der künstlerischen Produktion junger Gegenwartskünstler insbesondere in New York und Los Angeles. Farbwiedergabe, Schichtung der Pixel (der Prozess vom zweidimensionalen Bild zur dreidimensionalen Bilderstellung) und die Herstellung konkreter physischer Objekte im Anschluss an ihre digitale Produktion sind populäre Diskurse einer aufstrebenden internationalen Künstlergeneration. Themen wie Bilddarstellung, Abstraktion und Licht (hinter dem Bildschirm und im White Cube) sind seit den 1980er-Jahren von Interesse auch für die KünstlerInnen, und für die Erarbeitung und Produktion zahlreicher junger Zeitgenossen eine Inspirationsquelle.

Die Ausstellung in der Kunsthalle Weishaupt in Ulm bietet die Möglichkeit, über kunsthistorische und zeitgenössische Themenfelder in Millers Werk zu reflektieren. Zum ersten Mal wird sein Werk Verstärker in einem konkreten Ausstellungsraum gezeigt. Die Kunsthalle wurde statisch auf ihre maximale Tragfähigkeit und Höhe vermessen, die sie aufnehmen kann. Die Arbeit wird in dieser Ausstellung von der Kraft des physischen Raumes umrahmt. Das Werk soll zu uns aus unserer je eigenen Perspektive sprechen. Die Offenheit ebenso wie der inklusive Charakter der Arbeiten folgen der Tradition der nichtgegenständlichen Kunst. Das Kunstobjekt wird autonom, steht für sich selbst und befolgt seine eigenen strengen Beziehungsregeln zwischen Formen, Linien, Farben und Material. Diese gegenstandslose Essenz der Kunst Gerold Millers ermöglicht seinem Werk, innerhalb jedes kulturellen Rahmens zu existieren – es wird in zahlreichen Ländern auf der ganzen Welt gesammelt, ausgestellt und betrachtet. Miller hat eine universale Bildsprache entwickelt.

1 Auf Deutsch erschienen unter dem Titel: Brian O’Doherty, In der weißen Zelle. Inside the White Cube, hrsg. von Wolfgang Kemp, Berlin 1996 [Anm. d. Übers.].

2 In deutscher Übersetzung von Christoph Hollender in Stemmrich, Gregor (Hg.): Minimal Art. Eine kritische Retrospektive, Dresden/Basel 1995, 58–73

Vilmer, Fiona: Interview with Gerold Miller Interview by Fiona Vilmer for Scandale Project (Online magazine), 2016

Explore the universe of the german artist Gerold Miller through the image experiment. Berlin based artist joins all borders from painting, scupture, installation and more. Gerold Miller still asked about pictorial quality along his work, discover his universe, his influence and what is art to Gerold Miller.

It’s hard to define your work at first as it appears to be a hybrid form of art, in between different mediums such as installation, painting and sculpture. How would you describe it?
To reduce my art works to one type of work only would be very one-dimensional. As open objects, they can be wall related sulptures, drawings in the space, or flat architectures. They unite antipodes, however they are are deeply rooted in the here and now.

How does your work interact with space?
As an artist who works in the realm of the minimal and conceptual, I don’t assume the presence of the picture but develop it by moving towards it from a maximum distance. My works mark the border area between sculpture, wall area and painting. They include all elements of a picture: composition, depth, format and color. But they are fragmented and put together again in the simplest way possible. This is a method I have been applying until today, working on the notion of a picture as a spatial concept.

Which importance do you give to the frame as I read you use as an autonomous part?
The frame is relevant to me in the sense that the viewer receives no further points of reference for the pictorial invention.

Why working mostly with lacquer?
Working with lacquer and thereby collaborating with specialised companies has been a conceptual decision. Also, using high quality lacquer allows me to achieve an incomparable level of surface poignancy.

I read that you were trying to go beyond the restrictive function of art, can you tell us more about it?
The series “Monoform” has so far been the most extensive approach to this. They emerge from a deployment of color and form that cannot be reduced any further. This way, they stress the traditional format of the “picture” to its limits. As “images without image” they are neither references to something preexisting, nor do they stimulate associations. Nevertheless, they explicitly deal with questions concerning imagery. The “Monoform” meet these criteria in a conceptual sense, understanding the idea itself as the work of art.

To me your work asks this main question which is what is a picture, or how does a picture relate to life? Do you agree with this or can you tell us more about this?
Reality is the substance of my work. Since the beginning of my artistic career I have been engaging with the withdrawal from the picture without actually leaving it behind. My work therefore oscillates between art and reality. In the surfaces of my pieces there are reflections of coincidental images, brief impressions, fragments of the daily flood of images, on which I have no influence – and I wouldn’t want to, either. As an unfiltered mirror of the present my pieces stand for a similar “openness” in dealing with images as can be found in the work of artists such as Andy Warhol.

Do you think that nowadays artists show an aim to experiment as strong as it used to be when you started ?
To be an artist, a producer of images, is a huge societal responsibility. In my time, the path to success was not an easy one. The art market was much smaller, because it used to reduce itself to Europe and the US. There were only few galleries and of course social media, as an accelerator for artist careers, did not exist. Young artists today have to face the challenges and demands of the art market from a very early stage in their careers, which is hard. I feel like we had more time to learn and to develop our own artistic positions. I am close friends with some younger artists and see the problems they have. But at the same time I have a lot of confidence and trust in their generation.

What were your main influences when you started ?
My main influences were and still are the European ZERO artists, American West Coast Abstraction from the 1960s and also Neo Geo from the 1980s, which was the time of my studies. Abstract art led galleries to exhibit it through the white cube so that they would have the most neutral space and would give the possibility to the viewer’s gaze to fully focus on the work. Thus your work includes space or at least deals with the notion of space.

How do you think different spaces change the way to look at your work (as it can be exhibited in a white cube, a museum, an hotel, a house, etc.) ?
Every space or setting activates my work differently. Again, I understand my work as “open objects” that can be placed in any context, being open to any kind of interpretation.

Is there any dream place where you would like to show your work ?
I am always curious about new agents and sites in the art world and feel that in the last years there have been some exciting shifts from the traditional hubs of the art world to lesser known, non-western places.

“ Art is responsibility, liberty, a lot of work, and for me, besides my family, the essence of life. „

2014

Rodriguez, Nicole: Gerold Miller at Mies van der Rohe Haus, Eyeout: the mobile art guide, 2014

July 2014

A bit beyond the borders of Mitte’s buzzling art scene sits Landhaus Lemke (aka Mies van der Rohe Haus) perched on the banks of lake Obersee in the Hohenschönhausen borough of Berlin, its modest coal-fired brick single-story structure sinking into the surrounding gardens that edge up to the water. Commissioned by Martha and Karl Lemke, the private residence was designed by architect Ludwig Mies van der Rohe in 1932 while he was director of the Bauhaus before his exile to the United States in 1938. Since the end of World War II, the property went through numerous incarnations including a Stasi garage in the 1960s and an East German janitor’s and laundry storage quarters, before serving its current function as an exhibition space to showcase modern artwork. This year’s take on “Innen und Gegenüber” (“Inside and Opposite”) is a phrase only all too apropos for the Berlin based artist Gerold Miller’s solo show Mies van der Rohe as the exhibition questions the method of displaying a body of work in a venue that is itself the work of a landmark architect.

Gerold Miller is continuously grappling with three dimensionality, the role of interior decor and the mechanisms and processes by which a work arrives at representation. Walking in to the iconic villa, which spills out into the courtyard with its floor to ceiling windows and doors that gape open to the garden, is an abrupt interruption of the conversation between work and space as a viewer immediately gets implicated in the reflective surfaces of the wall objects.

In the elongated former home office with views to the south, Miller has installed Monoform 2, a pair of six meter long gold-lacquered aluminium strips that both emphasizes the two dimensionality of the surface we are gazing upon, in essence the villas bare wall, and serves as an indication of the unfilled, unfurnished, vacant space.

Aptly described as „wall sculptures“ or „architecturally responsive works,“ the installation is made up primarily of two dimensional, highly reflective panels coated in layers of an industrial glaze. Strongly reminiscent of a minimalist frame or some contemporary work by El Lissitzky, the deeply saturated blocks of colors – deep blacks, sharp greens and sky blues– play with the variance of reflective textures and act to diffuse the light in the room. Deceptively three dimensional, the polished surfaces of the panels echo the exterior garden, intermingling indoor and outdoor, reality and perception in a mix of contrasting light that captures every rustle of the foliage, the strolling cloud cover and momentary glimpses of passersby shuffling in the home, causing the interior light to shift and bend.

Reber, Simone und Meixner, Christiane: Minimalisimus, Der Tagespiegel, 2014

Juni 2014

Sechs Jahre vor seiner Übersiedlung nach Chicago ließ sich Mies van der Rohe auf ein letztes Projekt in seiner Heimat ein. Eine Villa am Rand von Berlin, so kompromisslos klar und schön wie ihre beiden Vorgängerinnen Haus Lange und Haus Esters in Krefeld. Gebaute Geometrie aus Stein, mit Fenstern, die als Rechtecke durch die Wandflächen schneiden, um zwischen den weißen Innenräumen und der Natur draußen zu vermitteln.

„Innen und Gegenüber“ nennt sich auch das Themenjahr im Mies-van-der-Rohe-Haus, das in Hohenschönhausen wie ein Fremdkörper zwischen den Stuckvillen liegt. Vier Ausstellungen widmen sich der Frage, wie Künstler ihr Werk an einem Ort inszenieren, der selbst schon ein Kunstwerk ist. Aktuell zeigt Gerold Miller neue Arbeiten, die er für das Haus entwickelt hat. So wird ein Teil der Zimmerwand von meterlangen, goldlackierten Aluminiumleisten gefasst. Ihre Gegenwart macht die Architektur zum Thema, erklärt die Räume zu skulpturalen Gebilden und setzt die subtilen Schattenspiele zwischen den Fenstern, Wand und Boden fort. Ein zweiter Block von Arbeiten, den typisch hochglänzend lackierten Formaten des in Berlin lebenden Künstlers, beschäftigt sich mit jenen Farben, die in der diffundierenden Atmosphäre des Hauses aufeinandertreffen: dem Blau des Himmels und des angrenzenden Sees, dem Grün des Gartens und einem Nachtschwarz als Kontrast zur tageshellen Freundlichkeit der Architektur.

Beide Blöcke, „Monoform“ wie auch „Set“, setzen sich in der Berliner Galerie Mehdi Chouakri fort, die Miller parallel eine Einzelschau widmet. Im Dialog der Arbeiten fächert sich das Spektrum seiner Kunst auf, die ihren inneren Reichtum hinter einer sparsamen Fassade verbirgt. Hier eröffnen sich die Potenziale der Farbe und ihrer Reduktion. Der Kreis des Sehens schließt sich, von der Linie zur Fläche, zum Körper, zu Edelstahl, Aluminium, Autolack. Auf den ersten Blick scheinen die aktuellen Arbeiten wenig mit Malerei zu tun zu haben. Wenn überhaupt, dann mit der hartkantig geometrischen Spielart des Hard-Edge.

Farbe als Fenster zur Welt

Der Künstler hat eine ganze Serie „hard:edged“ genannt. Sie war 2002 im Hamburger Bahnhof zu sehen. Eigentlich aber geht es ihm nicht um die Kante, sondern um den Raum. Die Farbe dient als Fenster zur Welt. Einer Welt, in der sich Innensicht und Außensicht überschneiden. Miller, Jahrgang 1961, beginnt nach seinem Studium an der Kunstakademie Stuttgart damit, den Grundriss des Bildes zu schaffen, die reliefartige Rückseite. „Anlagen“ heißt seine erste Serie mit Rahmenformen, der weitere folgen. Mit abgerundeten Ecken, mit farbigen Streben, matt oder glänzend. Sie markieren das Territorium, sie nehmen Wand in Besitz. Die Gestaltung überlassen sie dem Betrachter. Berühmt wurde Gerold Millers Aktion „Viktor“, von 1996, bei der ein Rüde in die vier Ecken des Ausstellungsraums pinkelte.

Im Mies-van-der-Rohe-Haus wie in der Galerie Chouakri steigert Miller seine lakonische Technik nun gerade in der Serie „Monoform“ zum Minimalissimus. Von den Rahmen sind nur mehr zwei Aluminiumleisten übrig geblieben, die das Bild von oben und unten definieren. Die Abstände lassen sich beliebig variieren. Dazwischen darf auch ein fremdes Werk hängen. Das erlaubt der Künstler. Doch die Farben der Kanten bestimmen die Leere im Zentrum. Wird die weiße Wand zwischen zwei rote Streben gezwängt, beginnt sie zu pulsieren. Zwischen massivem Schwarz und flimmerndem Pink franst das Bild aus und rutscht nach unten. Der Blick von den Rändern verändert die Wirklichkeit.

Ausstellungen schärfen das Auge

Das faszinierende Erlebnis dieser Kunst ist exklusiv. Es kann nicht abgebildet werden. Eine gewitzte Vierer-Serie mit lackierten Edelstahltafeln treibt das Spiel mit dem Auge auf die Spitze. Im matten Rahmen glänzt ein schwarzes Rechteck. Im Zentrum eines spiegelnden Rahmens stößt der Blick auf eine raue Mitte. Blinder Fleck und Spiegelbild werfen die Betrachter auf sich selbst zurück. Die Schatten suggerieren Räumlichkeit. Die Serie folgt der Bewegung. Je näher man dem Bild kommt, desto weiter lehnt es sich entgegen. Tritt man zurück, schrumpft es zur Fläche. Die Schatten verdampfen zur Linie.

In den Galerieräumen verbeugt sich Miller dann allerdings ein bisschen zu deutlich vor den Ahnen seiner Kunst. Die beiden großformatigen schwarzen Quadrate – mal glänzend, mal blind – dominieren den hinteren Raum. Im Spiegel überblenden sich El Lissitzky und Malewitsch, Josef Albers und Sol LeWitt. Für den Künstler bleibt all dies Malerei, auch wenn die perfekten Oberflächen der Hohlkörper längst von einer Werkstatt hergestellt werden.

Die glückliche Fügung der beiden Ausstellungen schickt den Blick durch die Stufen modernen Sehens. Sie schärfen das Auge, bis es unterscheiden kann zwischen Realität und Illusion.

Cherubini, Laura: Frames. From sculpture to painting and back, Rome, Katalog: Gerold Miller. SET, Giacomo Guidi pp. 21- 23, 2014

GEROLD MILLER. FRAMES. From sculpture to painting and back

by Laura Cherubini

“The space inside the frame is a conventional space that enables you to cohabit with The Rape of the Sabines.”

Fabio Mauri

A mental approach

Gerold Miller was born in Altshausen in 1961, he studied sculpture at the Staatlichen Akademie der Bildenden Künste, in Stuttgart, but he lives and works in that fertile hub Berlin has become over the last few decades. He began to produce artworks in the 1980s while he was studying at the academy (he graduated in 1989, an epoch-making date for Germany, the year of the fall of the Berlin Wall). His first pieces were a series of steel (and in some cases steel and stone) structures also placed in the open air. Already then his interest and ideas focused on the theme of the frame, as the perimeter of a work that chooses to be placed on the edge, on the borderline between illusion and reality. “Gerold Miller’s re-framing of the framing problem falls within a long modernistic tradition. Frames were originally used to enclose sacred images, fitting precisely around the picture area to make it stand out from the background.” (Peter Weibel)

In the 1990s Miller’s ideas became increasingly clarified and he adopted a conceptual approach. Amazing, for example, is really and truly a manifesto of his output. It is a photographic work of 1996 showing four dead cigarettes arranged to form a square, a section of real space. Therefore for him one of the basic operations is delimiting an area. Though through objects, used objects, remains, an invisible geometry is brought into play, an abstract concept is represented and the operation is entirely mental. The image is recreated and acquires meaning in the eyes of the viewer and through them in his mind. This work is extremely significant and contains in embryo many elements that Miller was to develop later: the concept of space, geometry, the mental approach, and the fundamental idea that it is the viewer who completes the work. This was to lead to the viewer playing an active role. “The approach is conceptual, it questions the viewer’s standpoint.” (Ulrike Schick)

His installations entitled Anlagen, namely Constructions, are made of aluminum and lacquer or industrial enamel paint. They date from the early 1990s (he chose the title in 1991). They do not define an image, but rather a borderline between sculpture and painting, between interior and exterior space. All Gerold Miller’s works involve, at the same time, drawing, painting, sculpture and architecture, they take the form of an object, they establish an active space , they take shape through a very stringent and radical minimalist concept. These constructions mark the margins, underline the limits and make the frame the work itself. But at the same time they indicate an absence: the absence of the centre of the painting, which long constituted the focus of the artist’s attention, the fundamental nucleus of the picture in artistic tradition.

Referring to Gerold Miller’s wall pieces Ulrike Schick writes that “they play with attributes used in classical panel painting; they flirt coquettishly with concepts such as frame, pictorial space, and surrounding space.”

Despite his unmistakable formal repertoire, the artist establishes a dialogue with figurative problems in a terrain on the confines of sculpture, wall surfaces and painting. The wall becomes one of the essential elements in his oeuvre. “Formulated in peripheral zones close to the borders of the picture, on the demarcation line between art and non-art.” (Stephan Maier)

In 2003 the Total Objects were born, which refer to the mechanisms of abstraction, and the processes and methods of industrial production. These works take up a position of sharp frontality on the wall. A new border area is defined between the sculptural quality of the object and the two-dimensionality of the painting. Thus the work is poised between abstraction and objectivity. The sculpture becomes sign, the form colour. The work is where the transition from sculpture to painting takes place, a transition that occurs in both directions. Also the Total Objects “oscillate indecisively between painting and sculpture” writes Maier, who also talks of a deliberately empty area in the middle and the desire to embrace the void.

Against illusionism

At the Galleria Giacomo Guidi Arte Contemporanea, Gerold Miller is showing a group of works especially conceived for his first solo exhibition in Rome, which are part of his most recent Set series. Along the road from sculpture to painting, the Sets superimpose the real surface of the image onto that of illusionistic painting. They therefore express a criticism of illusionism.

“In my work I seek to formulate a new concept of figuration, which distances itself as far as possible from the painting as understood in the traditional sense.” (Gerold Miller) In fact, these are minimal compositions of overlapping square surfaces of colour “Since commencing his artistic investigations some twenty-five years ago, the Berlin artist Gerold Miller has pursued a radical, particularly elegant strategy in order to bid farewell to the picture per se without actually renouncing it de facto as a sensuously moral fact.” (Stephan Maier) The Sets are “wall objects” consisting of a single sheet of metal with a smooth, lacquered surface. For the first time the surface does not have the central opening so characteristic of Miller’s work, which is replaced by a closed area. This is, in effect, the novelty and distinguishing feature of this exhibition. Until now the open space was typical of Miller’s works, since he had closely followed those artistic experiments that had focused on the dialectic relationship between the surface of the work and that of the wall support (such as the research of the Italian artist Dadamaino).

The works in the Set series simulate this breaking into the third dimension of real space through painting still anchored in two- dimensionality. Despite, or perhaps precisely because of, the radical restriction to few visual means, a disturbingly real impression of spatiality occurs, in which depth becomes illusion. Thus the artworks in the Set series are closer to panel painting than any of Miller’s earlier pieces.

The Sets lose relief, but recover and recreate that lost centre found in previous series. Here the open form is closed, but it has not lost the capacity for an interior and exterior relationship that we have singled out as its characteristic.

Miller’s game with its possibilities of colour combinations and formal reduction generates surfaces distinguished by their strong presence as wall sculptures. Both as individual objects and in their chromatic interaction, the Set series renders explicit the visual mechanisms typical of our modern visual culture, which are orientated towards frontal representation, display and rapid, simplified perception. Thus his explorations on the border between minimal sculpture and geometric abstraction become a reflection on the very concept of modern.

Reversing the viewpoint

In the Galleria Giacomo Guidi the works are displayed in the packing cases used for their transportation. This mode of presentation (an important aspect that Miller pays great attention to) takes on a meaning and creates a relationship between the gallery and the place where the works originated: the artist’s studio. A dynamic rapport is established between the ancient Palazzo Sforza Cesarini in Rome and the atelier in Berlin. By looking at the room from one side we have the viewpoint of an exhibition that shows all the works that can be taken in at a single glance. By reversing the viewpoint and moving to the opposite side we see all the packing cases as if we suddenly found ourselves in Miller’s studio.

The relationship with the support, which lies at the basis of all Gerold Miller’s work, is in this case maintained. However, the picture is detached from a relationship with the wall. The packing case is a potential mobile support, made of a completely different material, veined wood, which has nothing to do with the smooth, lacquered surface in monochrome sections of the work that it contains. So while in the Total Objects the empty space in the centre is square and in Instant Visions it is circular, in this latest Set series the work is more compact and does not seem to frame a space, but is instead framed by a packing case in this exhibition.

Thus a series of novel elements indicates the new path that Gerold Miller is following. In the smaller works , for example, Miller experiments with the use of gold and silver, which will probably also appear in larger formats. This too is significant. Rather than colours, gold and silver seem to embody light. Miller has always considered the chromatic aspect to be very important. In actual fact, he is seeking something different. “I am not so much interested in colour as in light”, the artist himself says, “For me colour is light”. Already in the exhibition ‘Primary Structures’ (Galerie fur Zeitgenössische Kunst, Leipzig, 1999) some large aluminum structures surrounding an empty space were mounted on very brightly coloured walls that were reflected in the metal, accentuating the value of light. Also in the show ‘Gerold Miller. Get Ready’ at the Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof, Berlin, in 2002, not only the walls but also the ceiling were entirely covered in luminous colour. The Total Objects shown at the Galerie Nikolaus Ruzicska, Salzburg, display some coloured segments and others where the aluminum reflects the gallery space. Here in Rome, the gold and silver in the Sets represent two different kinds of light. Within the same work we find that the light is differentiated through the contrast between glossy and matt areas. We find a similar contrast between the material of the work itself, which is bright, shiny, in vivid colours and the rough material of the packing cases.

This first solo show in Rome, reveals Miller’s admiration for certain Italian artists: the above-mentioned Dadamaino, Enrico Castellani’s vibrant, minimal surfaces, Giorgio Griffa who combines painting and conceptualism and resolves the problems of painting through actual painting.

“I come from sculpture”, states Gerold Miller, “If I had not become an artist I would have been an architect.”

2012

Köb, Edelbert: Gerold Miller. what do you represent, Berlin, Distanz Verlag, pp. 261 - 262, 2012

GEROLD MILLER. what do you represent

by Edelbert Köb

Unique Selling Propositions Gerold Miller’s work is visually concise and packs a thematic punch, both to a great degree. This is a good thing, because being inimitable is a phenomenon intrinsic to Western art and an important goal that only very few artists in this world attain to. And as we know from numerous sources, it has always been this way. In any case, long before the “disclosures” of Rosalind E. Krauss on the cult of originality and the original in modern art. A belief in the possibility of “a beginning from ground zero, a birth”1 was, however, completely lost during the eighties at the very latest. Afterwards, questions concern- ing the criteria of (relative) originality become considerably more complex, also because the second basic feature of the avant-garde, “the rejection or dissolution of the past,” has to- day given way to what is for the most part a respectful treatment of heroic figures and achievements of the past. This especially applies to those artists who, for instance, in answer to Roger M. Buergel’s rhetorical question on the occasion of Documenta XII – whether modernism was still our antiquity2 – would, like Gerold Miller would probably do, answer that it’s not a barren, depleted field of reference, but still contains an abundance of incomplete ideas, games that have not been played out to the end, promises that have not entirely been kept. Why, for example, should what Minimal and Conceptual Art, Hard Edge et cetera presented in direct succession to the modern artists of the 1950s and 1960s already constitute the end? Or let’s recall the glorious never-ending story of the monochromes for all those who still harbor doubt. The triptych Red, Yellow, Blue by Rodchenko was already made in 1921. The end of painting was proclaimed for the first time. Thirty years later, Rauschenberg made his White Paintings and Yves Klein the Superficie bleue, once again seemingly final statements – but they merely founded a new discipline. Over the next two generations, artists such as Marioni, Umberg et cetera dedicated their life’s work to art’s most reduced discipline, monochrome painting.

And so modernism’s discourses will not be concluded for a good long while, even if a belief in the autonomous, heroic act of creation has become obsolete. In any case, this belief has, in the course of a gradual economization of culture (as we continue to wait for a corresponding culturalization of the economy, as promised), been pragmatically replaced by a demand for unique selling propositions. In marketing and sales psychology, the term “unique selling proposition” (USP) is given to an outstanding feature that makes one product clearly stand out from the competitor’s. What can be inferred from this for art, the subject of the present discussion? Even subtle differences and refinements in things that are basically already there can become, as with monochromatic painting, USPs if the images created possess such visual power and aesthetic memorability that a corresponding repetition brings about the desired recognition effect. Something truly new can only be expected from the modernists of postmodernism in new constellations of content and form.

As early as 1967, Clement Greenberg said referring to the theme of innovation: “We all realize now that in avant-garde art, extremity pays off the most in the long run – and what could be more extreme than randomness?”3 But what is random, when all art is no more than a claim anyway, as the critic had to admit in resignation even back then. Even in his wildest dreams he never would have been able to imagine the mere existence of certain variations of today’s so called “expanded concept of art.” In its own way, every era poses the question as to the definition of the non-random, which only the legitimate can be. And it clearly emerges when an artist creates a brand, as Gerold Miller has done with his “Frame Objects,” formations between painting and sculpture for which there is no overarching term, or at least none that he’s found or still looks for. In any case, since around 1991 Miller’s work has occupied a theme or perhaps a “unique selling proposition” in the long term: its ongoing focus on the motif of the frame scares off any potential imitators and makes it “capable of defending itself against competition”4 – not only because he has pursued it with dedication, but also because the visual dominance of his frame motif is evidently powerful enough to assert itself as a recognizable constant even within the topological variety of his previous work series. Not that there haven’t already been many other attempts in recent art history to distance oneself from the overused painting on can- vas without entirely giving it up as a fact or reference. In other artists’ works, however, the motif of the frame has remained a mere episode, an interlude – usually limited to painting in a more narrow sense. On the other hand, Gerold Miller has successfully made something that in contemporary painting has increasingly grown obsolete and irrelevant – the frame – the main subject of his art. What could be interpreted as a mannerist limitation in content, as a constructed innovation calculated from a marketing point of view, has today proven to be an ongoing source of inspiration and stimulus for the artist.

Prelude It’s no accident that in nearly all texts on Gerold Miller, the early group of works, the Anlagen, form the point of departure and center for the authors’ various considerations – even when the focus of the accompanying exhibition or catalogue is on newer works. Evidently, there is a broad consensus that this is where the legitimization of his entire oeuvre lies. This is not meant in a moral sense, but proceeds from the notion of a work that is consistent within itself, from a committed approach, and finally from Miller’s own ideas on the matter. This is proven by the works themselves, whose individual, clearly differentiated series are anchored through their clear, stringent inner logic in a system of references to recent art history. Miller’s method is conceptual, analytical, rational. It demands cognitive participation on the part of the viewer and for this reason can be evaluated according to its own premise. This applies most of all to the minimalistic Anlagen with their sparse visual messages.

Greenberg, the great analyzer and guardian of non-objective art’s requirement of purity – but unfortunately a lousy prognosticator – classified, in 1967, almost all of the new artistic phenomena of his time and, looking back, some of the most important artistic phenomena of his time as “variations of novelty art” with Minimal Art5 its most extreme version. Today, Minimalism is a force in recent art history, its influence on the art of the second half of the 20th century to the present day has been enormous and unabated; it also left a mark on the young sculptor Gerold Miller. In his early works with primary structures, he developed – or rather, the intrinsic logic of the process gave rise to – the motif of the frame.

The earliest works known to me from catalogues are delicate open metal constructions from Miller’s student days: racks, supports, also frame like ones, with shorter and longer rods protruding asymmetrically and at right angles into the space. They gravitate towards the rectangular and, partly due to the narrowness of his studio at the time, above all to the wall, at first only leaning against it, then placed at eye level. In a delicacy resembling drawing, welded rods and square tub- ing occupy the space to its full height, width, and breadth. Individual protruding parts point into space, which lends the sculptures a sense of the unfinished, the fragmentary. More and more reduced, increasingly moving towards “interior drawings” while losing their outer forms, these works progress in the direction of clear frame constructions that initially resist anything in the way of imagery. The formal effort in the sculptural and spatial differentiation of the rectangular constructions according to the principles of tension and equilibrium is so explicit that the works should without a doubt be classified as reliefs. Precocious, sensitive post-minimalist, one might say, with an evident propensity for the frame motif.

The Subject As a young man, Miller still felt bound to the modernist principle that one should avoid any kind of experience that is not fundamentally rooted in the respective medium. This not only means doing without illusion, but above all subject matter. He had already transgressed this dictum of purity in 1988, with Oranger Hänger; starting in 1991, with the Anlagen, the “sin” became a habit to be savored sensually. While Anlage 1 (p. 139) still hovers ambivalently between construction, showcase, and drying rack, its successors give the viewer little recourse but to associate them with a frame or picture display. The decision in favor of the picture/frame theme was now a definitive one.

It’s entirely possible that the first time the idea of the image became explicitly sculptural came with the placing of Große blaue Konstruktion and the two equally large frame sculptures Ohne Titel in the outdoors in 1989 and 1990 respectively. The crucial experience of seeing how the frame constructions encompassed and visually incorporated real motifs like landscape and architecture in an outdoor situation set a process in motion that would gain momentum in 1990 during his studies in Chicago, the motherland of Minimalism and the grand gesture. The ensuing radical simplification of his formal language and the reduction of sculptural details in the work series Anlagen, which were no longer individually titled, but numbered in sequence, suggests this. Their extreme formal simplicity highlights the content and the question of the objects’ meaning, of course. The problem of form becomes

precarious in an entirely new way now, because form and con- tent are no longer identical.

“Anlagen,” the title chosen for this group of works that paved the way for a future development, is ambivalent; this ambivalence is entirely intentional in that it refers both to the works’ content and formal attributes. According to their definition, “Anlagen” are generally devices or facilities, in the present case for the reception of pictures to protect and ennoble them. If we subject the Anlagen to closer scrutiny, we see that they usually consist of a very simple, basic rectangular construction with one or several similar construction elements added or welded on in symmetrical or asymmetrical manner. The materials used are square tubing of varying dimensions, strip iron, and angle sections. Using these few parameters, Miller works through a variety of proportions in the frame motif and utilizes various different combinations in construction (attached bluntly, mitered, joined with a panel) towards an allusion to the box form (through flat “slats” added to the inside of the frame construction, which is set on edge). Here, at the very latest, the field of associations is expanded to include the container or, depending on context, the box or painting crate. Anyone familiar with the reverse side of a canvas will think of a stretcher upon seeing the first crossbeams, which divide the interior horizontally or vertically, (apparently) stabilizing the frame construction with cross supports. These suspicions give way to certainty with the horizontal and vertical “stays” in a square grid, as in Anlage 38 (p. 143). Thematically, the work comprises a complete set of subjects: painting and accessory.

Virtual, Frameless Picture Objects In a catalogue of earlier works from 1995 6 with a focus on the Anlagen of the years 1993, 1994, and 1995, an author wrote that these were “entirely dependent on context in a Duchampian sense. If one were to see them lying around out- side of an art context, one would erroneously take them for window frames or some sort of building parts. But as soon as they hang on a wall, they pose questions about painting.”7 Dependent on context: this they are without a doubt. But the monochromatic “Anlagen” of this time certainly do not pose questions about painting. These works address questions concerning the image and the concept of image, in other words purely ontological questions regarding the picture object, its volume, and its relationship to the frame and to the wall. Painting is that which happens later, materially within a limited format (or perhaps one should use the term “excluded” in regards to the wall and the viewer). The premise of the sculptural Anlagen is the virginal picture object, so to speak. And even when the sculptor Miller began painting, his dialectical partner remained the classical, frameless canvas – now, however, with an entire spectrum of what can come on top. But more on that later.

A Paradox When, in these early works, the artist lays unequivocal claim to a section of the wall or a segment of the space, he poses, as discussed earlier, the indirect question: to what purpose? And we are called upon not to guess blindly, but to wager a plausible supposition.8 For the inventor, however, the activation of cognitive processes on the part of the viewer intended by the artist only functions with those (informed) viewers that are accustomed to seeing a picture not (exclusively) as an illusory surface of reflection or projection, but (also) as a material

object, as volume. The reference here is to modernist paintings that are frameless for varying reasons. Can one imagine framing the boundless space of Kasimir Malevich’s White on White (1917), the cosmic radiation of Yves Klein’s blue, or a large scale all over painting by Jackson Pollock? Because they show their third dimension, however, such works mutate into objects and hybrids between painting and sculpture – with ramifications for art that should not be underestimated, also for the art of Gerold Miller.

The history of the frameless painting goes surprisingly far back in time, which is not yet common knowledge. Due to the history of painting of the past fifty years, one can nonetheless expect that at least the so-called specialized public has absorbed the existence of the image object, its corporeality and consequently its ambivalence regarding sculpture and architecture. The artist was able to count on this. Thus, in the sculpturally defined framework of the Anlagen, everything subjective in the way of imaginable painting can be projected onto the works, but the discussion remains limited to pure image objects, the monochromatic at the very most, in dialogue with the coloration of the frame sculptures. In their minimalistic austerity, the way the steel Anlagen are built already makes other notions seem obsolete.

We find ourselves confronted with a veritable paradox here. As frame-like delimitations of imaginative spaces, the Anlagen refer to image objects that themselves do not require a frame, and for which a frame would be contrary to their very nature. And the reference works because the viewer’s consciousness, or more precisely his subconscious already seems indelibly branded with the obsolete duality of image and frame.

Speculations One interpretation of some of these early work groups and individual pieces of the Anlagen is somewhat atmospheric: they contain emptiness itself, either in the existentialist sense of Giacometti, whose early figure Mains tenant le vide (L’Objet in- visible)9 holds it between his open hands, or in a positive sense, as the total sum of all available possibilities. But Miller took another approach, the metaphysics of a Barnett Newmann,10 for instance – the formal nature of whose work was not all that far away – being essentially foreign to him. Apart from this, the “disappearance of the image” and “the end of painting” would have been interesting and plausible variations in interpretation in lieu of their evocation. In any case, installation- based exhibitions such as the 1996 show in Winterthur (p. 45) or in Ravensburg in 1997 (p. 93) point in this direction: through an aesthetic placement of the Anlagen at eye height according to the classical practice of hanging paintings, with a finely differentiated calibration according to wall and spatial proportions. This not only conjures up the provocative notion of a painting exhibition without paintings, but also, in the case of the larger formats, quite vehemently addresses the architectural organization of the walls.

Color Enters the Game The formal strictures that the artist imposed upon himself with the Anlagen are severe in a challenging way. Accordingly, the possibilities of variation are endless. The Anlage 59 of 1995 marks a first attempt to open up the game in a significant way. It’s a simple frame with a vertical beam in the middle. Now, however, he reveals the crusty welding seams on

the corner connections that were previously burnished away. In doing so, Miller points to the handcrafted fabrication of his sculptures, which were previously covered in a single uniform layer of paint. But this remains an isolated case. Made the same year, Anlage 58 (p. 149) is the first work of its kind, but its type was continued. It’s a frame covered in dull metal made from metal slats that are laid flat and not, as before, on their side. This is the most primitive, but also most honest form of frame construction, in a formal sense a degree zero. Miller contrasted this with a move that was rather surprising for this phase: he allowed the matte black paint applied to the two side slats to flow downwards according to gravity and the material’s inherent laws and leave traces from the friction.

While up until this point the paint merely served to neutralize the material, it now appeared in its own right. And what were the ensuing implications? These seem far-reach- ing and become evident in a comparison with Anlage 121 (p. 47). A simple frame construction as already described is now “grounded” hastily with a rough brush, each slat in one continuous brushstroke. The light color on the darker ground, which is visible from underneath, reveals a noticeable texture; due to the schematic and to a certain degree pragmatic method, however, it does not bear an individual signature. Similar to the previously described random paint formations, according to Miller’s unwritten laws these textures also had to be generated exclusively through the pure painting process in order to preserve the work’s objectivity. In a certain sense, Miller once again allows the provisional element, the unfinished character of some of the early works, to come to expression, albeit in a completely new way. Opposing the minimal! But the essential thing is that, despite this “transgression,” the frame continues to remain a frame (a grounded one now) and calls for the picture (for which reason these “groundings” are soon discontinued), whereas the “pourings,” as I’d like to call them, can, as innovations, be classified into numerous variations. Both color and painting itself enter the game here, albeit in a purely process-oriented way. This not only breaks the stringent nature of the constructions; their autonomous presence calls the former immediate reference to painting into question. Doesn’t the function of the two cross beams, which are no different in a painterly sense, seem to be to keep the two vertical “color objects” on the wall in position? Is this “proto-” or “

” not equivalent in its presence to the minimalistic form carrying it? If this is the case, then we are for the first time dealing with a hybrid between painting and sculpture in a real and not a fictive sense. In any case, these works anticipate later ones, although still in an indecisive, probing way. Thus, the exclusively subdued, duller hues leave little room to unleash painterly energies on the delicate constructions.

The first Anlagen are from 1991; the catalogue of works lists 174 of them. A relatively detailed analysis of this group of works, which is impressive both in terms of quantity and quality, seeks to prove that in this period Gerold Miller already addressed virtually all of the basic questions and problems that he explored in his subsequent work, formulated them on a very high level, and answered some of them in a convincing way. For this reason, their continuation in the developments that followed, which have already been extensively reviewed and published, will remain brief.

The Same Ingredients – New Frames of Reference In 1998, the first ready-mix works suddenly appear (ready-mix 1, p. 205): perfect, elegant anodized aluminum objects from a new aesthetic world, but still clearly frames. In a topological sense, it would be difficult to think up a different term for them: reduced to the lowest common denominator they are frames, that is, frames without any additional qualifications, i.e. mirror frames, picture frames et cetera. This in no way means that they are neutral in terms of their references; obviously, it’s their system of reference that is different. It would be interesting to learn the occasion and cause of such a move, which must have disoriented experts and the public at least somewhat. But Gerold Miller leaves the interpretation of his work up to the professional interpreters and gives them a generous (and imprudent) carte blanche. Artists are often wont to offer helpful hints with their work titles, but Miller refrains from this. Despite this, let’s take the artist and title literally and ask: what ingredients did he use in his ready-mix? We already know the basic ones from the Anlagen: color and painting, object and sculpture, wall and space, two- and three-dimensionality, in and of themselves basic ingredients that are not always easy to combine, but that have already been corralled into a fascinating dialectic exchange through the frame and picture theme. Paintings are flat, while frames have depth; they hang on the wall and in the space respectively. This already unites the two key problems of modernism. The ingredients have remained the same to this day; only their proportions are varied in hard:edged, total object, instant vision …

The ready-mix series comprises only 32 works, not least due to the limited palette available for anodizing the aluminum objects. The word ready in the title can also mean that the “mix” is done in a certain sense, and can’t really be changed anymore. Indeed, apart from color and size, there are almost no other variations in this series. But the word might also hint at the serial fabrication of the works, which are no longer made by hand. As of recently, the pieces were delivered in a finished state; the artist now delegates.

The balanced interplay between the ingredients painting, relief, sculpture, and architecture lends the ready-mix a quiet, self-evident presence. We forget that this series introduces an important shift in the work’s development, a radical change in reference. The material aluminum, the manufacturing technique, and the perfection of the shiny surfaces lead us into the world of machine and industrial production, into the aesthetic field of technology, design, and architecture. The frames, equally thick throughout, bent outwards and inwards in varying degrees on the corners, evince a high degree of autonomy and anonymity. Accordingly, the coloration is deter- mined by the production firm’s color chart. The references at the heart of the ready-mix and the subsequent series that continue to the present are based on design’s formal language of the 1950s and 1960s, but can only be seen as a kind of fashionable retro style when they’re viewed in a superficial way. The artist, who has taken a decisive step into the present here, has certainly not intended this. His new formal vocabulary, familiar to us from everyday experience, is timeless instead of nostalgic; it does not primarily arise from formal aesthetic considerations, but rather technical and physical strictures and developments in material and manufacturing technology on the basis of ergonomics and aerodynamics.

The persistence of reality unavoidably carries impli- cations for interpreting the frame function. When a direct reference to art is absent, it is automatically replaced by the visual imagery of our time, for the most part moving images perceived from a moving perspective or in motion per se, as in film and television: rapid, fleeting images caught through a car window, the portholes of planes and ships, on television screens and monitors. The formal characteristics of the frames, devices, and coverings containing these images are a part of our collective memory and are prototypically inherent in the shapes Miller’s objects take. As clear symbols of the flood of imagery, a key feature of our contemporary experience of the world, the ready-mix could today easily hang on the walls of schools, public offices, and pubs, just as the cross or portraits of presidents once did. In this regard, ready-mix a1 in the entrance hall of the Grand Hyatt in Berlin is exemplary. As installation photos from galleries and semi public spaces show, in this regard these pieces easily hold their own every- where, even on red walls and wooden paneling.

Interlude: Art Historical Reference After the ready-mix proved to be incapable of further development in a technical and formal sense, Miller once again re- activated the art historical context with his series hard:edged of 2000. Miller’s hard:edged is the Hard Edge of the 1960s, taken literally. Harder than Hard Edge itself, hard as metal, so to speak: only a few clear, hard colors, rigorously separated from one another or, more precisely, placed alongside one another, the result of a rationally generated process devoid of emotion, just as the definition Hard Edge calls for. The effect is further intensified by the perfection of the high-gloss surfaces. Interestingly, these objects, once again rectangular frames, do not conjure any pictorial notions, despite or perhaps be- cause of the clear reference to painting in the title. They’re far too much the autonomous sculpture for this, too strong in color, too dominant. They pass unequivocally as painting replacements because they leave no desires open; the only thing they leave open is their center.

The hard:edged arise as individual monochromatic, symmetrical objects that are then varied in series, hung either in rows of the same and different sizes and colors or closely together as identical formats in varying colors, placed above one another, doubled, multiplied. Now, compositional acts (the variation of the ratio of the part to the whole) can only take place on the wall. Standing alone, the objects show only themselves and the confident assertion of their presence. Their capacity to be grouped together as similar pieces or to generate a dialogue among disparate works, however, is enormous. In a kind of apotheosis, modernism’s formalist self-referentiality is pushed to the extreme here – without that wink of the eye, without the irony of a postmodern eclecticism. In all seriousness, Miller ups the ante.

Mutations With the appearance of the total objects in 2003, we see a continuation of the ready-mix with expanded means and a greater degree of freedom, total freedom so to speak. “Total” is, of course, a relative term in respect to Miller’s strict work concept. The fact is that the total objects marked the beginning of an experimental phase that continues to this day and whose constants are the sculptural rectangular shape rounded on the corners, preferably in square form, and, of course, the frame motif.

At first, only the shape is manipulated: cautiously, but with remarkable results. The frames are widened horizontally, vertically: a minor intervention, but with a huge effect! The object mutates first into a pictogram of a computer screen, then a monitor (total object 52, 53), and then the letter O (t. o. 30). Associations to the frame are now of secondary nature; perception shifts from the painting or art reference in the direction of design, logo, and sign. This is further underscored when, around 2005, the central opening shifts diagonally to the lower right (t. o. 53). The first works in the series instant vision also date from 2005; their hallmark is a round opening, initially shifted only from the middle downwards. The effect is not only one of overwhelming neutralization and even deactivation of the frame function, but also the creation of asymmetrical surfaces that in turn call for a balancing of tension and a restoration of equilibrium. The prerequisites for painting are finally given as the open inside shapes grow smaller in favor of the remaining surface area.

Hybrids If, up until now, it was merely a matter of color, painting now enters the equation in a narrower sense: initially only in its most rudimentary, process oriented form, using rough experimentation to produce “painterly” surfaces both on the raw, untreated sculptures and the monochromatic, enameled ones. The textures created in this fashion are more or less generated by chance, either through a machine or by attaching it to a car in motion. They bring out the object nature of the total objects in an even more pronounced way than the high-gloss enameled monochromatic surfaces (t. o. 82, instant vision 52, 53).

Later, the artist repeatedly tries out similar processes, such as oxidation. After apparently shifting the center of his objects permanently, the artist’s main interest, however, is now directed at compensating the ensuing asymmetry by means of color field painting. This marks an end to a mere flirtation with painting and a step from the colored sculpture towards a true hybrid between painting and sculpture. A con- sequence of this, of course, is that the classical problems of non-objective painting become crucial for the sculptor, albeit in limited form in that the themes hybrids present are to a large extent prefigured, if a hybrid is understood to be the creation of something symbiotically new. Painterly form can only arise out of a dialogue with the sculptural form; it takes on a new dynamic component through the shrinking and shifting of the inner shape away from the center. Removed from the center, imbedded and enclosed by a form now experienced as a surface, the central opening undergoes a change in meaning in the direction of window, opening, gap (t. o. 53). As a result, the viewer’s attention is drawn to the inside shape instead of the outside, the frame, as was the case in all the earlier series. This inner shape becomes a center of compositional energy and the point of departure for countless deliberately futile attempts to restore the old frame order of centeredness and symmetry. Miller visualizes this process, which can also be imagined in temporal terms, through the enlargement, repetition, displacement, layering, and superimposition of the inner frame form in all directions. In doing so, he unleashes powerful impulses in motion and spatial dynamics; these, however, are easily absorbed and contained by the external form, which is highly robust due to The rounded corners (t. o. 125).

In his instant visions, Miller follows a similar strategy as in the closely related total objects. These also derive their tension from the frame motif or the notion of a frame that also leads to the idea of a painting. From the outset, how- ever, the artist allows the reduced round shape, which has slipped downwards, to return to the center. To this purpose he reserves a round area whose siTe makes the remaining surface shrink back to a frame. In the tondo, the overlapping rotation and expansion phases of the round form become visible towards the center of the object. These can be read as an opposing shift and shrinkage. The ensuing suction effect and illusory depth of field is immense, magnified as it is by the actual opening (instant vision 63).

Still No End in Sight In both series discussed here, the sculptures’ actual spatial situation is pitted against the illusory space inherent to painting. This is the logical result of a formal consistency. The sole use of painterly forms that become legitimized through sculpture, such as a rounded-off rectangle, square, and circle, automatically lead to spatial layering in combination with the frame theme. Hence, the premises have to be changed for a new game, the repertoire expanded. Miller succeeds in this by employing a simple trick: he eliminates the rounded edges on the inside and creates new points of compositional reference with the four corners. Once again, Miller picks up on the latent energies of the inner form, which has been pushed to the lower right corner. He underscores its tendency to reconquer its original position with areas of color applied diagonally in the corners. This gives rise to a rotation that suggests the square’s movement back into the center of the picture. Thus, the artist not only achieves a charged equilibrium within the sculpturally generated asymmetry, but also liberates the color that was previously trapped inside the frame and can now unfold undisturbed to the perimeter. This will to give color space could also be the reason the artist chose a very large format for this type of total object, which, because of its unique nature, warrants its own term.

Size, of course, also intensifies the presence, a quality often and justifiably attributed to Miller’s works, and that has also been attested to in this text. Presence is what remains when everything else is forgotten that has been written about a work. On the non verbal nature of his discipline and language’s limitations in this regard, Ad Reinhardt said “Art is art. Everything else is everything else.” I would counter that, and not merely because many books have been written about Ad Reinhardt, with this: Anything that nothing can be said or written about is certainly not art. Much can be written about Gerold Miller. This text examines only the main avenues of his sculptural and painterly investigations, exercises, and experiments on his hybrids, which operate according to a plan but are not systematic. It has hardly addressed the color and quality of the surfaces, the art historical references have only been partially approached, and the inclusion in current art contexts has been left out altogether. These are extremely important aspects! In any case, however, the undeniable presence of his total objects cannot be explained or conjured in words.

Summary Today, after more than thirty years’ continuous development, I am not only impressed by the oeuvre’s significance, which is owed to the obdurate pursuance of a theme that is at once

striking and seemingly limited, but above all by its persuasive inner logic and diversity between the extremes of austerity and opulence. A closer scrutiny of the works reveals, despite the self-imposed restriction, a variegated game with and against the modernist canon11 which one hesitates to call postmodern – not only because of the term’s misuse, but particularly in view of the architecture of the 1950s and 1960s. Compromised as it is through the randomness of the practice, the term postmodernism, at least in the definition provided by the Oxford English Dictionary,12 seems accurate in all respects for Gerold Miller’s work. All too often, however, one of the features listed – “a general mistrust of theory” – serves as a legitimization for a dull anti-intellectualism and/or a simple lack of education. In contrast, Gerold Miller’s work is one of the most reflective, unique, and distinctive contributions to his generation’s open critical dialogue with the Modernist repertoire of ideas – beginning from here and the present day.

1  Rosalind E. Krauss, The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, Cambridge, Mass./London 1986, p. 157.

2  Around 1900, modernism replaces antiquity as art’s main frame of reference. Buergel’s question addresses the end of modernism’s role as the frame of reference for contemporary art.

3  Karlheinz Lüdeking (ed.), Clement Greenberg: Die Essenz der Moderne, Dresden 1997, p. 364 (translated).

4  Wikipedia on the properties of unique selling propositions.

5  Lüdeking 1997 (see note 3).

6  Renate Damsch-Wiehager, in: “Gerold Miller,” Ostfildern-Ruit 1995.

7  Ibid, Brian Muller, p. 45.

8  “supposition (n): the act of supposing (…) assumption.” American Heritage, Boston 1985.

9  Alberto Giacometti, Mains tenant le vide (L’Objet invisible), bronze, 1934. A female figure metaphorically holds emptiness between her open hands.

10  For Newman, abstraction not only meant a consistently reductive process, but also the spiritual manifestations of form and color.

11  “canon: the body of rules, principles, or standards accepted as axiomatic and universally binding in a field of study or art.” Webster’s, New York 1989.

12  “postmodernism: in architecture, the arts, literature, politics, etc., any of various styles, concepts, or points of view involving a conscious departure from modern- ism, esp. when characterized by a rejection of ideology and theory in favour of a plurality of values and techniques.” Oxford English Dictionary online.

2011

Maier, Stephan: Frameworks. Zwischen Ornament und Versprechen - das Werk von Gerold Miller, Bad Saulgau, Städtische Galerie Fähre, pp. 145 - 149, 2011

Frameworks: Zwischen Ornament und Versprechen – das Werk von Gerold Miller

von Stephan Maier

Und manchmal zeitigt ein kritischer Zwischenruf eben doch unerwartet tiefgehende Wirkungen. In Sachen Kunst und Werk zum Beispiel. „Alles verschwindet“, unkte Paul Cézanne bereits beim Aufbruch in das immer mal wieder für beendet – also vollendet – erklärte Projekt der Moderne, um beinahe im selben Pinselstrich und unter dem Eindruck der Benjaminschen technischen Reproduzierbarkeit in tatíscher „Rapidité“ und prophetischer Vor(aus)sicht hinzuzufügen: „Man muss sich beeilen, wenn man noch etwas sehen will.“ Spätestens seit Cézanne, eines des Hohepriesters kunstfertig belassenen „Non finito“, beginnend aber eigentlich mit den endzeitlichen Visionen Giottos, haben Künstler unbeirrbar und unentwegt Mechanismen entwickelt, um zumindest ihren eigenen Hals aus der fein geknüpften Schlinge übergreifender Sinn- und Bedeutungslosigkeit zu ziehen. Werk – wie existenzzersetzend dabei die Generation der Nachkriegsjahrzehnte war, als Künstler wie Bas Jan Ader oder Blinky Palermo nicht nur aus, sondern kurzerhand und höchstpersönlich von der Bildfläche verschwanden. Oder sich, vor der Zeit und damit umso nachhaltiger wie Yves Klein, in Zonen des Immateriellen zurückzogen.

Seit Anbeginn seiner bildkünstlerischen Untersuchungen vor nunmehr 25 Jahren, verfolgt der Berliner Künstler Gerold Miller eine radikale, besonders elegante Strategie, um sich vom Bild zu verabschieden, ohne es als sinnlich-sittliche Tatsache aufzugeben. Seine sukzessive aufeinander aufbauenden Werkgruppen eint ein einzigartiges Phänomen: Sie umschließen einen Leerraum, sind im Zentrum oder an einer prominent platzierten, optischen Mitte leer, nur dem Anschein nach geleert oder schlicht und einfach leer geblieben. Vielleicht, und so bleibt zu mutmaßen, ist aber auch etwas aus den so reduziert daherkommenden Wandstücken gefallen oder gekippt, die nicht von ungefähr mit der handelsüblichen und funktionstüchtigen Gestalt eines Rahmens kokettieren.

Gerade dieses so scheinbar nicht Greifbare von Nichts und Nichtung – so unangreifbar wie unbegreifbar – hat natürlich allerlei Spekulationen über einen finalen Verlust der Mitte hervorgerufen. Weil: Gerold Miller hat sich mit dem Verlassen der Fläche aus dem ureigensten Schlachtfeld, dem eigentlichen Abenteuerspielplatz der Malerei, zurückgezogen, hat sich von der Tafel als dem Urgrund und Endpunkt bildnerischer Odysseen, der seit seinen mittelalterlichen Anfängen das Paradies verheißenden Unternehmung in zwei Dimensionen – ob in Himmelfahrt oder Höllensturz, in Paradiesgärtchen oder Pickelporno – endgültig und unwiderruflich verabschiedet. Seine Kunst ist eine Kunst der Umschreibung allgegenwärtiger und allfälliger Bildwelten, eine Kunst der Annäherung wie der Entfernung, des Verschwindens und des Verlustes, der Aufgabe, Preisgabe und des Abtauchens. Derart lassen seine bildmächtigen Konstellationen, die jederzeit mit einem offensiv vorgetragenen „Anstelle von“ argumentieren, noch immer und immer wieder etwas vom Kampf des Bild-Hauers erahnen, der standesgemäß und pflichtbewusst mit dem künstlerischen Body Check via Rahmen und Leiste ausgetragen wird.

Dieses kräftig zupackende und ordentlich austeilende Ringen um das Bild ist bereits in den künstlerischen Anfängen deutlich umrissen.

Wenn sich die noch eigenhändig verschweißten Leisten – noch beinahe unsicher suchend – von außen her oder zu einer entlegenen Randzone hin, einer vorsätzlich leer, also offen für Interpretationen und Spekulationen gehaltenen Mitte, annähern. Fast seismografisch geführt, das eigentliche Thema einer beginnenden oder sich entziehenden Bildlichkeit behutsam tastend umgreifen, abtasten. Die Leere umarmen wollen. Und sich die bisweilen rasterartig zergliederten wie gefügten Objekte, nach einer kurzen Phase der Orientierung und Ordnung, im und mit dem Raum auf das Feld des Möglichen an der Wand konzentrieren, die Wandfläche als Handlungsraum erschließen und dort ihre Freiheit finden. Was sich konsequenterweise vor der so utopielosen wie ideologiefreien Folie des Neo Geo der 80er Jahre ereignen musste, deren Geometrisierung und Entmythologisierung von praktisch Allem und Jedem allerdings erst in der Folge einen anschaulichen und abzulesenden Einfluss ausüben sollte.

Ihre eigentliche Erfüllung finden die Untersuchungen Gerold Millers auf dem entgrenzten Feld von Bild und Bildlichkeit dann in der Werkgruppe der Anlagen. „Anlagen“, das sind mitunter großformatige Objekte an und für die Wand, die sich dem Bild und einem Begriff davon nur noch von den Rändern her, respektive zu diesen hin, nähern wollen und können. Als Setzungen der reinen Form in klarer Sprache. Formuliert in den grenznahen Zonenrandgebieten des Bildes, an der Demarkationslinie zwischen Kunst und Nicht-Kunst. Denn: Was ist ein Bild, heute? Wo muss es anfangen, um den unablässigen Terrorgefechten der sinnlichen Reize standhalten zu können, sich den tsunamisch über uns hereinbrechenden Überflutungen von Sinn und Sinnlichkeit trotzen zu können, und wo muss es ein zumindest vorübergehendes Ende finden, um nicht erneut in die doch überflüssigen Illustrationen des einen großen Fortsetzungsromans (der Moderne?) zu münden? Gerold Millers Anlagen sind visuell sedierte, farblich und formal nüchtern, fast teilnahmslos lackierte Wandobjekte, die sich im Raum nicht exponieren oder ihn terrorisieren, sondern die Gegenstände des Alltags als eine Art Ordnungsanweisung integrieren. Den Dingen des wirklich wahren Lebens keine Ordnung aufzwingen, sondern anbieten; Verheißungen, Versprechungen, die als Angebot so oder so leer bleiben müssen.

In einer Übergangsphase kommt die Farbmaterie dann in Fluss und ins Fließen. Ausgegossen und ausgekippt, in freien Strömen der Urgewalt Schwerkraft überantwortet, bringt sie nicht nur die Faktoren Zeit und Zeitlichkeit ins Spiel, sondern das Thema einer Malerei, nach deren vielfach und allerorten postuliertem Ende. Derart sind Gerold Millers Arbeiten Randbemerkungen zu einer zeitgemäßen Malerei als State of the Art. Die Farbe sieht sich dabei bis aufs Äußerste verdichtet, in ihrer Bildwirkung bis zum Anschlag verstärkt wie komprimiert: In der nunmehr fast „Pop Art“-ig anmutenden Farbigkeit, großzügigen Farbkombinationen in großflächigen Formkonstellationen sind allumfassende Rahmenbedingungen des Bildes selbst angelegt. Die hart und präzise realisierten Wandstücke thematisieren so gesehen die Gegenbilder zu einer Welt des Abstrakten, des Geometrischen dies- und jenseits des Atlantiks, als Gegenstände in einer Welt ohne Gegenstand. So – und hier wird der Einfluss des Neo Geo und eine grundlegende konzeptuelle Geste und Gestimmtheit vollends schlagend – erweist sich die semipermeable Membran um Kunst und Leben als zusehends brüchig und durchlässig; wird die Kunst für den Angriff und eine Öffnung in Richtung Design, des bereits Gestalteten, bereit.

Das Dienende des Angewandten (auf das Leben) und das Hehre des Abgewandten (vom Leben) verschmelzen in der großen Synthese der total objects, die den Anspruch, der noch unschlüssig zwischen Malerei und Bildhauerei pendelnden Objekte Donald Judds, absolut setzen.

Charakteristisch für die Arbeiten der total objects, und fast schon ein Branding der ureigenen Art, ist weiter ein fokussierender Leerraum, dessen Gewichtung sich jedoch zugunsten der anderen, des Bildes konstituierenden Faktoren verschoben hat. In Gerold Millers mobilen Reliefarbeiten mit ihren glatt lackierten und auf Hochglanz polierten Oberflächen sehen sich die visuellen Reize und Risiken einer Welt der fall- und streckenweise grellbunten Gestaltung bereits internalisiert. Die Reichweiten und Wirkungsmöglichkeiten der so neuartig wirkenden Farbqualitäten in mitunter bereits erfolgreich erprobten Farbklängen und –sequenzen sehen sich dort auf die Spitze getrieben. Das Farbenspektrum, dem Fundus einer post-globalen Lebenswirklichkeit entnommen, adaptiert, interpretiert und modifiziert, dient dem Künstler selbst als eine Art ‚Ready Made‘; votiert so für ein koloristisches Klima im Zeichen und in Zeiten eines umfassenden Wandels. Das kann unter Umständen ganz schön poppig daherkommen, als Neo (nicht Retro!) Pop einer transnationalen Kultur der Gegenwart.

Ihre selbstverordnete oder fremdbestimmte Selbstorganisation findet diese, durch die selektiven Firewalls des Künstlersubjekts gekämmte Warenwelt in eben dieser Leerzelle: Sie organisiert, formiert und formt die zusehends ausufernden und ausfransenden Eindrücke; Impressionen der modernen Wahrnehmungswelt zu den totalen Gegenständen einer offen/geschlossenen Ganzheit. Sie ist die ungerichtete Kraftzelle im mitunter verschlossen gehaltenen Hochsicherheitspark der Kunst, die nicht nur die Außenform bestimmt und bemisst, sondern alle Parameter der hybriden Objekte konstituiert. Und wie sich die nunmehr optisch getunten Rahmenflächen nicht nur zusehends aufwendiger gestalten, Raum und Zeit für feinfühlig modulierte Farbflächen in Hightech-Qualität bieten, so ist auch der Leer-Raum dazwischen bis zum Bersten mit einer lang nachhallenden (Lebens-) Wirklichkeit aufgeladen. Die Leerräume erscheinen so als die eigentlichen Keimzellen einer Bild(er)findung, in der Kunst als Konzept und im Design als Signet – in der Delegierung der Ausführung per se miteinander verschwistert – die eine bis dato für beinahe unmöglich gehaltene Mesalliance von Kunst und Konsum eingehen. Wie die Anlagen mögliche Formen von Ordnung und Sicherheit nach außen hin abstrahlen, so haben die total objects eine vor- und aufgefundene Ordnung durch künstlerische Selektion bereits ins rechte Lot von Form und Farbe gesetzt. Sie wagen den Spagat zwischen Ornament und Versprechen, einem Ornament allerdings, das als kompositorisches Element aus der Leere kommt und sich dorthin zurückziehen wird.

Als konzeptuelle Klammer fungieren die nur vordergründig lakonisch inszenierten Fotoarbeiten, die das unabsehbare Feld möglicher Bilder in die Fläche rückführen, und über Macharten und Machenschaften der Gesamtveranstaltung Gegenwartskunst Auskunft geben. I love Kreuzberg 1 & 2 erzählt vom Schaffen der Kunst durch die Kunst – und streift dabei wie von selbst die Grenzgebiete von fotografischer Dokumentation und performativem Verhalten im Raum – daneben aber auch von einer zusehends wichtiger werdenden grafischen Komponente im Werk Gerold Millers. Wie kann sich die Lebenswelt in das singuläre Werk einschreiben; wie kommen wir zu unseren Bildern, die wir mehr bis minder langfristig in die gefügigen Zwischenablagen von Verinnerlichung und Verdrängung verschieben, und was machen sie zwischenzeitlich mit uns. Das Bild als Abdruck und eine sorgsam versiegelte Einprägung, in den doch so aufwendig polierten und präparierten Oberflächen. Im Dienste und zu Gunsten des Werks, und über den Umweg des (gelenkten) Zufalls und durch das Hintertürchen der (indirekten) Verneinung.

Was in den aktuellen Arbeiten der Oxidationen vollends zum Tragen kommt, wo die Parameter Zeit, Zufall und Zerfall, Verfall und Verwitterung, damit aber die Vergänglichkeit in sich selbst überlassenen, kaum mehr steuerbaren chemischen Vorgängen und Reaktionen thematisiert werden, und ins (ans?) Bild gesetzt sind. Die Methode – das Bild (Max Bill)? Und Kunst dann doch eine eher heitere Wissenschaft? „Anschauungsbilder sind sehr wertvoll: sie dienen dazu, beseitigt zu werden. In der Auflösung dieser Erstbilder stößt das wissenschaftliche Denken auf seine organischen Gesetze… Die Generalisierung mit Hilfe des Nein muss das beinhalten, was sie verneint. In der Tat leitet sich der gesamte Aufschwung des wissenschaftlichen Denkens seit einem Jahrhundert von jeden dialektischen Generalisierungen her, die das, was sie verneinen, mit einbeziehen.“1

1 Gaston Bachelard, Die Philosophie des Nein. Versuch einer Philosophie des neuen wissenschaftlichen Geistes, Frankfurt am Main 1980, S. 157/160.

Rohringer, Susanne: Gerold Miller - A retrospective: Konkrete Objekte, Artmagazine, 08. 2011

August 2011

Der 50jährige Bildhauer Gerold Miller zeigt im Erdgeschoß große Formate seiner polymorphen Wandobjekte, die zwischen Skulptur und Malerei oszillieren. Meist sind es quadratische Rahmenkästen aus Aluminium mit abgeschrägten Kanten, die glatte Farbflächen aufweisen. In ihrem Zentrum befindet sich eine Öffnung, die die leere Wand freigibt. Rund um diese Öffnung, die wiederum ein Quadrat bilden kann, gruppieren sich Farben die mit harten Kanten – „Hard:edged“, so auch der Titel einer Werkserie – gegeneinander abgesetzt sind. Da gibt es kein Verrinnen oder Ineinander-Übergehen von Farbe. Vielmehr interessiert ihn das Zusammenstoßen der Farbflächen, ihre Wirkung auf den Betrachter und die Auswirkungen auf die innere Leerstelle, auf die plötzlich ein Schatten fallen kann. In den jüngsten Arbeiten wird die Öffnung kleiner und das Bild als solches gewinnt wieder die Oberhand.

Geht man durch die Galerie, so kann man sich nicht des Eindrucks erwehren, dass man in erster Linie Objekte vor sich hat – Objekte, an denen Fragen der Malerei abgehandelt werden. Assoziationen zur Minimal Art stellen sich ein, die Überhöhung des Banalen, wie sie Donald Judd mit seinen Boxes vorführte, ist auch hier zu finden. Es ist aber keine lapidare Kunst, die hier gezeigt wird, sondern vielmehr eine, die ihr Statement wuchtig vorträgt: es geht um die Frage, welcher Form man sich heute noch bedienen kann, um Farbe ernsthaft zur Sprache zu bringen. Das geschieht in großen Formaten, die teilweise an die Kunst von Kenneth Noland oder Ellsworth Kelly erinnern, aber auch in kleineren Formaten, die im Obergeschoß der Galerie zu finden sind.

An Hand kleinerer Objekte kann man sehr gut das Experimentieren Millers mit unterschiedlichsten Formaten und Farben beobachten. Da gibt es orange Töne, glänzende aufgeraute Flächen und Schlagschatten, deren Effekte meist Eingang in größere Arbeiten finden.

2010

Wie haben Sie das gemacht, Gerold Miller?, Berlin, Monopol Magazine für Kunst und Leben, pp. 26 - 28, 2010

November 2010

Der Berliner Stadtteil Kreuzberg ist der perfekte Arbeitsort für ihn, nicht nur wegen der günstigen Mieten. Seit neun Jahren arbeitet Gerold Miller im Hinterhof eines Gründerzeitbaus, zwischen Döner- und Ramschläden, Cafés, Kulturvereinen, Wettbüros – die Werbetafeln und Schaufenster mit den grellen, ungewöhnlichen Farbkombinationen inspirieren ihn. So wie die Kunstgeschichte. Miller, Jahrgang 1961, schätzt die künstlerische Arbeit von Peter Roehr, Franz Erhard Walther oder Rudolf Stingel (und kuratierte Ausstellungen mit ihnen, lange vor ihrer Wiederentdeckung). Er studierte in Stuttgart, als Neo-Geo-Vertreter wie Gerwald Rockenschaub und John Armleder bekannt wurden; sein Einfluss auf jüngere Künstler ist unverkennbar.

Millers postminimalistische Wandobjekte lassen sich als fl ache Skulpturen oder raumgreifende Bilder bezeichnen, er selbst nennt sie schlicht „total object 236“ oder „total object 155“. Formen und Farben sind extrem reduziert, die Oberflächen hart, präzise, makellos. Herr Miller, wie haben Sie das gemacht? Ich habe schon immer mit Metall gearbeitet. Holz ist ein zu weiches, warmes Material für mich, nur Metall erlaubt mir diese Präzision. Meine Arbeiten bestehen oft aus bis zu zehn Lackschichten. Jede Farbe braucht eine andere Grundierung, dann kommen Speziallacke drüber, die diese Transparenz und Tiefe schaffen, und am Ende die Polierung.

Weltweit gibt es eine Handvoll fähiger Freaks – die meisten von ihnen kümmern sich um Motorräder oder Oldtimer –, die sich mit solchen Speziallacken- und lackierungen beschäftigt. Wir haben Farben in London mischen lassen, weil die hier gar nicht mehr produziert werden. Oder ich kaufe sie in Australien. Vor ein paar Jahren habe ich angefangen, verschiedene Chromlacke zu verwenden. Davor lag ein mühseliges, extrem aufreibendes Verfahren, bis wir es hinbekommen hatten, dass der Sprühlack wie Chrom aussieht. Einige meiner Farben habe ich auch patentieren lassen. Das macht einen Großteil meiner Arbeit aus: die langen und aufwendigen Prozesse, bis ich zu den richtigen Ergebnissen komme, die richtigen Leute fi nde, die meine Vorstellungen umsetzen können. Und da ist dieser griechische Lackierer am Rand von Berlin, den ich aufgebaut habe und der ausschließlich für mich arbeitet. Das war eine Empfehlung von meinem türkischen Metallbauer. Eben wie das in Kreuzberg so ist.

‚Total object 236‘ besteht aus lackiertem Aluminium, ist etwa zwei Mal zwei Meter groß und ziemlich schwer – zu zweit kann man es gerade so an die Wand hieven. Die erste Stufe der Arbeit hat wie immer in meinem Studio begonnen. Ich skizziere meine Ideen zuerst mit Pappmodellen. Ich zeichne sie nicht auf, weil ich gleich sehen möchte, ob meine Idee auch im Raum funktioniert und ob alle Proportionen stimmen. Dann kommen die Farben. So mache ich das schon immer. Ich habe noch kistenweise solche Modelle, die hebe ich auf. Auf der Grundlage des Modells fertigt mein Metallbetrieb eine Computerskizze an, nach der sie dann das Aluminium, das ich meistens verwende, lasern, schneiden, biegen. Mit dem Schlosser dort arbeite ich schon so lange zusammen – der weiß exakt, was ich will. Nur so ergibt sich diese Präzision: aus hundert geführten Gesprächen und tausend ausgestandenen Diskussionen. Die fertige Aluminiumform schickt er dann zum Griechen. Was den Schlosser wie den Lackierer angeht, muss ich sagen: Ich bin ganz froh, dass die getrennt von mir in ihren eigenen Werkstätten arbeiten und nicht bei mir im Atelier. Die haben ihren Bereich, und was genau sie dort treiben, ist mir egal – mich interessiert nur das Ergebnis. Ich möchte beim Arbeitsprozess gar nicht dabei sein, außerdem wäre das auch nicht sonderlich gesund.

Manche Sachen verselbstständigen sich manchmal. Beide Handwerker haben versucht, selber Wandobjekte wie meine zu entwickeln. Aber das funktionierte nicht, das haben sie schließlich auch gemerkt. Technische Verbesserungen können und sollen von ihnen ausgehen, das Formale muss aber von mir kommen. Ich fand das aber gut, dass sie mal die Seite gewechselt und auch mal meine Perspektive eingenommen haben.

Jedenfalls: Der Lackierer braucht etwa eine Woche für eine solche Arbeit. Dann wird sie hergebracht, und ich versuche immer, sie für eine Zeit hier im Atelier zu halten, ehe sie in Ausstellungen geht und für mich danach eigentlich nicht mehr erreichbar ist. Mein Werk ist ziemlich stringent. Es gibt relativ klare Entwicklungen von einer Werkgruppe zur nächsten, dennoch interessieren mich Kontraste: das Perfekte, das Präzise – aber eben auch das Zufällige, Spröde und Unfertige, das sich der Perfektion entzieht, ohne dass ich Einfl uss darauf habe, und die glatten Oberfl ächen angreift – fast ein wenig aggressiv, aber schön. Ich bin kein minimalistischer Künstler. Es geht mir um künstlerische Parameter, die in den 60er-Jahren aufkamen, wie Prozess, Handlung und Spur, die in Malerei und Skulptur eingegangen sind und ihre bisherige Statik aufgebrochen oder aufgelöst haben.

Ich habe 1996 als Aktion einen Hund in die vier Ecken des Ausstellungsraums pinkeln lassen. So markieren die Hunde ihre räumlichen Territorien, das kann man auch skulptural verstehen. 2006 bin ich mit meinem Auto durch Kreuzberg gefahren und habe dabei eins meiner Aluminiumobjekte hinter mir hergezogen, sodass die Straße ihre Spuren auf dem Werk hinterlassen hat. Da steckt jetzt alles drin. Deshalb ist es mir wichtig, hier noch das Foto ‚I love Kreuzberg‘ zu zeigen. Zwischen meinen Serien gibt es viele solche konzeptuellen Brüche, um mein Werk immer wieder infrage zu stellen, neu zu sortieren. Als Künstler brauchst du das, sonst bleibst du stehen.

2009

Nymphius, Friederike: Postindustrieller Impressionismus, Berlin, Katalog: Gerold Miller. Verstärker, Galerie Mehdi Chouakri, pp. 55 - 58, 2009

Postindustrieller Impressionismus

von Friederike Nymphius

Gerold Miller setzt sich mit Fragen der Bildlichkeit im Grenzbereich von Skulptur, umgrenzter Wandfläche und skulptural-bildhaft definierter Architektur auseinander. In seinen frühen rahmenartigen Anlagen beschäftigte ihn das Verhältnis von Linie und dem von ihr bezeichneten Raum. Die später entstandenen Werkgruppen ready-mix und hard:edged untersuchen als flache Architekturen das Verhältnis von Bild zu Wand über die Beziehung ihrer reduzierten, aber dennoch von einer starken Präsenz charakterisierten Oberfläche zum umgebenden Raum. ready-mix umschreiben Innen- und Außenraum, versuchen mit minimalen Mitteln auszuloten, wo der skulpturale Raum endet und wo jener der Malerei beginnt. Zwischen Bild, Relief, Skulptur und Architektur oszillierend, sind sie keinem der traditionellen Genres mehr eindeutig zuzuordnen. Sie revisionieren die Raumkonzepte der russischen Konstruktivisten, die Malerei, Skulptur und Architektur als „echte Materialien in echten Raum“ zu einem Gesamtkunstwerk vereinigen wollten, das zur Konstruktion einer besseren Menschheit dienen sollte. Gerade aber die neuesten hard:edged und total object genannten Werkgruppen sind in der Faktizität der Gegenwart verankert und entziehen sich utopischen Ansprüchen.

Millers Arbeiten entstehen aus einem nicht mehr weiter reduzierbaren Einsatz von Form und Farbe. Dennoch formulieren sie einen neuen Begriff von Bildlichkeit, der über die konventionellen Definitionen hinweggeht und bereits die Anlage des Bildes als Raum versteht. Sie erfüllen die Kriterien von Bildlichkeit daher in einem konzeptuellen Sinn, der bereits die Idee als Werk versteht. Der Betrachter erhält dabei keine weiteren Anhaltspunkte, die ihm zur Bildfindung dienen könnten.

Für hard:edged hat Miller die charakteristische Deckung von Farbe und Bildkontur der amerikanischen minimalistischen hard edge Malerei übernommen, die auf eine enge Beziehung zwischen Farbe, Form und Raum abzielt. Die Ausdehnung der Farbe ist identisch mit der ihres Trägers. Konzipiert er Serien, hat jede Farbe eine Funktion im Ganzen, so dass sie als chromatische Einheit funktionieren und zugleich Wechselwirkungen mit anderen erzeugen. Die Repetition von Form strukturiert und schafft Kontinuität, während die Farbe rhythmisiert.

Millers objektivierender Gebrauch von Formen und Farbe versucht die Bruchstückhaftigkeit unserer visuellen Kultur zu systematisieren und sie als einzelne Module wieder in diese zurückzuführen. Der Zerstreuung von Bildern und Eindrücken setzt er seine Arbeiten als Klammern entgegen, die inmitten der komplexen urbanen Realität visuell nicht besetzte Territorien focussieren. Die hard:edged Arbeiten setzen daher Zäsuren, indem sie zivilisatorische Freiräume als visuelle sowie mentale Räume auszeichnen, in denen Projektionen möglich sind.

Über den Prozess der Wahrnehmung versucht Miller den Rezipienten in seine Untersuchungen einzubinden. Er bietet dem Betrachter nicht mehr ‘das Gemälde’ oder ‘die Skulptur’ im traditionellen Sinne, sondern die Prämissen künstlerischer Arbeit: zu formenden skulpturalen Raum und Projektionsflächen für Bilder wodurch seine Werke eine konzeptuell-prozessuale Erweiterung erfahren, in der die eigentliche Bildfindung vom Rezipienten selbst geleistet werden muss. Dieser ’Handlungsaspekt’ steht im Widerspruch zu den herkömmlichen Theorien des Bildes, die es als statisches Objekt definieren.

Die Idee des ’bewegten’ Bildes führt der Künstler in der Auftragsarbeit Plan 3 (2002) im Sindelfinger Maybachcenter of Excellence weiter. Die Wandinstallation entwickelt sich als ein elegantes, von Schwarz nach Weiss fließendes Band entlang der Innenwand des Center of Excellence. Es begleitet die Käufer der Luxuslimousinen von dem Moment an, in dem sie erwartungsvoll den Showroom betreten, bis zu dessen Verlassen mit dem Maybach. Die Arbeit wird darüber zur Metapher für die Konkretisierung von Wünschen und Projektionen.

Die ortsspezifisch konzipierte Arbeit erzeugt durch den Farbverlauf aus der Fläche heraus Volumen und Bewegung. Ihre neutrale Farbpalette von Schwarz, Grau und Weiß reflektiert die dominierenden gedämpften Farbtöne der Umgebung und steht als Substitut für eine mögliche Fülle an Farben. Die Fliessbewegung des Farbverlaufs eliminiert den traditionellen definierten Betrachterstandpunkt. Sie generiert realen und abstrakten Raum, in dem es keine feste örtliche Verankerung gibt. Die Wandinstallation kann daher ständig verschieden gesehen und erfahren werden, da jeder neue Blickwinkel veränderte Licht- und Schattenverhältnisse, Höhen und Tiefen offen legt. Dies verstärkt ihren artifiziellen Charakter und löst sie aus herkömmlichen Raumkonzepten heraus, die sich auf eine zentrale Perspektive konzentrieren. Das von Plan 3 entworfene Bild geht daher über seine Definition als statischem Objekt hinweg und suggeriert Bewegung, faktische wie geistige. Es entwirft so die Idee von Ferne, die Vorstellung von landschaftlicher Weite und vom Laufe der Zeit. Es generiert daher Projektionen einer imaginären Reise durch die Erinnerung oder in die Zukunft.

Gerold Millers Begriff von Bildlichkeit bewegt sich auf einem hoch abstrakten Niveau, das nach eigenen Definitionen sucht. Dabei spielt sich seine Positionsbestimmung wesentlich im Bereich der Malerei ab: in der entdinglichten Welt John McLaughlins, des Wegbereiters der amerikanischen hard egde Malerei sowie in der von dem russischen Suprematisten Kasimir Malewitsch vertretenen Vorstellung vom Ende der Malerei. Die formalistische Selbstbezüglichkeit des Modernismus wird zugleich ausgesetzt, indem der Künstler Realität fragmentarisch einbrechen lässt, etwa wenn er in seiner Einzelausstellung in der Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof (2002) Peter Roehrs readymadehafte Soundcollagen von Radionachrichten und Werbung der 60er Jahre als Loop abspielen lässt. Neben der Realität erhält somit der Faktor Zeit Bedeutung. Der konventionelle lineare Zeitbegriff wird durch ein flüchtiges Verständnis von Gegenwart ersetzt, das sich in einem ständigen Perpetuieren materialisiert. Vergangenheit, Gegenwart und Zukunft heben sich als Zeitzonen auf und sind zu einer instanthaften Präsenz komprimiert.

Gerold Millers künstlerische Arbeit zeigt, wie der Weg in die ungegenständliche Kunst unweigerlich in die Realität zurückführt. Den Künstler interessiert daher der Schnittpunkt zwischen Gegenständlichkeit und Abstraktion, an dem plastischer Raum zur Fläche wird. total object vermittelt zwischen diesen Positionen. Skulptur reduziert sich zu einem Zeichen, das räumliche und psychologische Perspektiven zum Verschwinden bringt. Der Bildraum wird zur Zwischenzone von Bild und Skulptur, von Abstraktion und Realität.

Die Werkgruppe total object bildet vorerst die letzte Station auf dem Weg von der Plastik zum Bild. Ihre serielle Anlage reflektiert sowohl ihre industrielle Produktionsmethode als auch inzwischen gesellschaftlich tief verankerte Prozesse, die Realität zu einem abstrakten Sy-

stem geraten lassen. Die frontale Ausrichtung der total objects entspricht der Tendenz zur displayartigen Darstellung und der Oberflächenästhetisierung unserer visuellen Kultur. In ihren lackierten Oberflächen spiegeln sich Zufallsbilder und flüchtige Eindrücke, Fragmente der täglichen Bilderflut, auf die der Künstler wieder Einfluss nehmen kann.

Ähnlich den Massenmedien zeigt total object einen reduzierten Ausschnitt von der Komplexität der Realität. Um ihre Botschaft in aller Knappheit so gut wie möglich kommunizieren zu können, setzen sie auf möglichst allgemein verständliche abstrakte Zeichen, die als Projektionsfläche für die verschiedensten Bedürfnisse dienen sollen. total object entspricht diesen Anforderungen durch seine reduzierte Form und indem es Realität als ephemere Reflektion zeigt. Es steht für die neue Art der Wahrnehmung in einer sich permanent beschleunigenden Gegenwart: Oberflächen ohne Tiefe, schnell, schön, aber auch hart und präzise. Der Unterschied zwischen Ausschnitt und Ganzem wird indifferent, da Sinneseindrücke nur als Reflexe abstrahiert und wahrgenommen werden. Weil das Erfassen der gesamten Umwelt dem menschlichen Auge ohnehin unmöglich ist, schafft es sich Filter, die das Gesehene durch Selektion limitieren. Das maximale Sehen mit weit schweifenden, konzentrierten Ausblicken, ist durch ein minimales, transitorisches abgelöst worden. total object erzeugt im visuellen Kontinuum Intervalle, die Bildvoraussetzungen schaffen, indem es Bilder umgeht. Es kondensiert die Idee des Sehens als readymade in monochromen Lack zu einem postindustriellen Impressionismus. Silber spielt daher in Millers Werk eine wesentliche Rolle. Es nimmt in seinem immateriellen Farbkörper die Umgebung ungefiltert auf und wirft sie indifferent zurück.

Der postindustrielle Impressionismus basiert auf einem Sampling rascher Momentaufnahmen sowie von Bildern aus Mode und Design, die vorübergehende, visuelle Komponenten wie auch zyklisch wiederkehrende Module des urbanen Lebens sind. Bei diesen Samples handelt es sich um selektive Findungen, die durch die Wahrnehmung bestimmter formaler Strukturen gelenkt ist. Zu seriellen Formmodulen komprimiert, werden sie von Miller in die Kunst übersetzt. Die total objects führen die Denksysteme und formalen Raster von postindustrieller Kultur und Kunst zusammen. Aus der Überlagerung dieser abstrakten / artifiziellen Systeme ergeben sich für beide Möglichkeiten, ihre Zusammenhänge neu zu verstehen.

Die Arbeiten Millers sind Repräsentanten einer Kultur, deren wesentlichste Charakteristik die Repetition ist, in der Strukturen, Standards und Referenzen zyklisch wiederkehren. Das Original verliert darin jegliche Bedeutung und löst sich in der Reproduktion auf. Kulturelle Referenzen werden austauschbar oder durch die Reprise zu readymades. Der von den historischen Avantgarden beanspruchte Glaube an radikale künstlerische Neubeginne und bedeutungsvolle Inhalte wird nicht ausgesetzt, sondern lediglich durch die Befreiung vom Innovationszwang ersetzt. Definitionen wie alt und neu spielen keine Rolle mehr, während der Begriff der Findung an Bedeutung gewinnt. In Millers Werk trifft deshalb ein konsequenter Formalismus auf ein permissives Verhältnis zu Inhalten und Bedeutungsebenen.

Miller spielt daher seine gesellschaftlich verankerte Rolle als Bildproduzent, indem er seinen Part in der Vervielfachung der visuellen Kultur einnimmt, ohne ihr etwas „Neues“ hinzufügen zu wollen. Die total objects stehen als selbstreferentielle Plastik für die demonstrative Verweigerung vor der Überdosis an Informationen, während sie diese als Bilder zulassen. Sie sind Produkte einer fortschreitenden Liberalisierung im Umgang mit Bildern, indem sie sie ohne Rücksicht auf deren tiefere Bedeutung inkorporieren und reproduzieren. Sie verweigern sich einschichtiger Interpretationen, sind in ihrer Eindeutigkeit mehrdeutig.

Köhler, Herbert: Bildner bildloser Bildlichkeit, Kritisches Lexikon der Gegenwartskunst, pp. 2- 8, 2009

Bildner bildloser Bildlichkeit

von Herbert Köhler

Es scheint ganz so, als habe da jemand – nach Art sokratischer Lakonik – eine Nebensache zur Hauptsache gemacht. Akzidens statt Substanz. Begleiterscheinung statt Essenz. Rahmen statt Bild. Pragmatisch und im ganzen Satz ausgedrückt: In der Regel sucht der Käufer eines Gemäldes den dazu passenden Rahmen. Der Künstler selbst kümmert sich für gewöhnlich nicht mehr um die zukünftigen Begleiterscheinungen seines Werkes, sobald es den Besitzer wechselt, außer er wird damit eigens beauftragt. Gerold Miller scheint solche Gewohnheit gerade auf den Kopf stellen zu wollen. Denn er widmet sich gerade jenen bildunwesentlichen, rahmenhaften Gebilden, um deren „pictural inserts“ sich gefälligst andere kümmern sollen, verlagert also die Bildgenerierung in die totale Verantwortung des kognitiven Subjekts. Und damit sind wir gemeint, die Zuschauer, die Betrachter, die Interpreten.

Ja, so könnte eine mögliche Erklärung aus rein pragmatischer, malerischer Sicht daherkommen. Der nächste Schritt ist das zu befragende Assoziationsfeld: Rahmen ohne Bild, anti-bildgebende Verfahren also? Aspektierung ohne Aspekt? Sucher ohne Bildgegenstand? Tabula rasa? Horror vacui? Bilderraub? Luft als Bildträger (man denke an Yves Klein)? Kunst ohne Kunst (Dada)? Ikonoklastische Experimente (Art and Language)? Ikonografische Tabuzonen? Imaginatives Diktat (seit Ian Wilson)? Die Unterstellungen könnten ausufern, wie meistens, wenn nicht anwesend und erkennbar ist, was erwartet wird und sich der Interpretationsspielraum so erweitern lässt, dass plötzlich auch alles möglich wird.

Rahmen ohne Bild

Was hat da den Rahmen verlassen oder ist aus dem Rahmen gefallen? Etwa die gesamte Malerei, die Fotografie, ganze Daseinsraumausschnitte, das visuell Mediale? Wenn ja, warum und an welchen Ort haben sich die Medien der Bildlichkeit verdrückt? War da überhaupt etwas, was sich verdrücken könnte? Ja, was sind eigentlich „die Bilder“ überhaupt und wie verhalten sie sich? Sind sie auch dann da, wenn sie weg sind? Dann die kunsthistorisch entscheidende Frage: Was bildet ein Bildner, wenn nicht Bilder? Man könnte mit Vorschuss sagen: sich und andere.

Gerold Millers offensichtliche Rahmen-Optik, die sofort mit ihrem Erscheinen zum Künstler-Label geworden ist, hält nur dem ersten Blick stand. Und der ist bekanntlich die prüfende Falle jeder (zeitgenössischen) Kunst. Es ist ein zweiter Blick erforderlich, der die Falle erahnen lässt und Konsequenzen daraus abzuleiten bereit ist. In der Kollision von erstem und zweitem Blick steckt der Primärimpuls zu jeder weiteren Hinterfragung, Klärung und Deutung. Die im Kopf der Betrachter in Gang gesetzte hermeneutische Detektei sucht jetzt nach anders sprechenden Spuren, welche die Optik offenbar verschleiern. Wozu aber dann die Optik? Weil die Klärung sonst Text erfordern würde und damit das Genre verlassen wäre.

Also: „Seit Beginn seiner bildkünstlerischen Arbeiten verfolgt der Berliner Künstler Gerold Miller […] eine radikale, besonders elegante Strategie, um sich vom Bild zu verabschieden, ohne es als sinnlich-sittliche Tatsache aufzugeben. Seine unterschiedlichen Werkgruppen eint ein einzigartiges Phänomen: Sie umschließen eine Leere, sind im Zentrum oder einer prominent platzierten, optischen Mitte leer, nur zum Schein geleert oder ganz einfach leer geblieben.“1 Sie referieren sich im weitesten Sinne als Umriss selbst.

Erster und zweiter Blick

Bleiben wir bei der Kollision von erstem und zweitem Blick. Das was wie Rahmung aussieht, ist nicht allein komplementäre Bildlichkeit, die konkret konstruktivistische und minimalistische Vorgaben als Umriss- und Rahmenbedingungen weiterdiskutiert. So viel steht fest. Diesbezüglich waren und sind schließlich in den vergangenen fast 100 Jahren (seit Kasimir Malewitsch mit seinem „Schwarzen Quadrat“ Ende und Neubeginn der Malerei markierte) schon einige andere Künstler am Werk gewesen. Hier zur Orientierung nur eine Auswahl der paralleloptischen, ästhetischen Duftmarken in nicht gewichtender Alphaethik: Josef Albers, Carl Andre, Jo Baer (Edge Paintings), Karl Benjamin, Max Bill (Rahmenbilder), Geneviève Claisse, Lorser Feitelson, Dan Flavin (Leuchtstoffröhren-Rahmen), Günther Förg, Sam Francis (Edge Paintings), Otto Herbert Hajek, Frederick Hammersley, Peter Halley, Donald Judd, Ellsworth Kelly, Thomas Lenk, Robert Mangold (Frame Paintings), Agnes Martin, John McLaughlin (hard edge), Mies van der Rohe (Farnsworth House / Barcelona-Pavillon), Blinky Palermo, Karl-Georg Pfahler (Farblinien), Bridget Riley, Peter Roehr (Poster, Additionsverfahren), Fred Sandback (Faden- und Linienrahmen), Myron Stout, Franz Erhard Walther (Eckenarbeiten), Christopher Wool – und nicht zu vergessen die gesamten Gestaltungsimpulse von Bauhaus bis zum aktuellen Mode  und Mediendesign, bis zur Frame-Optik von Displayoberflächen im CAD, Flatscreens und ähnlichem. Festzuhalten ist: Es handelt sich hier wie gesagt um Künstler, Planer und Designer mit Paralleloptik, nicht mit Parallelintention oder Parallelkonzept. Aber das wird sich im Folgenden noch erschließen.

Bezogen auf eine Kunstgeschichte des selbstreferen- ziellen Rahmens stellt Peter Weibel fest: „Wir können also in der Entwicklung einer absoluten Kunst festellen, dass die Malerei das Bild vollkommen verloren hat und dass an die Stelle des Bildes der emanzipierte Rahmen und die befreite Wand getreten sind. Der Rahmen als Objekt und die Wand als Bild sind die letzten Stationen in einer Kette von Befreiungsakten: nach der Befreiung und Verselbstständigung von Farbe, Form und Fläche haben sich auch Rahmen und Wand befreit. Millers Arbeiten stehen in dieser Tradition eines radikalen Modernismus, dessen Zentrum das Problem der Fläche war. Indem Miller die Fläche selbst preisgibt und auf die Wand als letzte Fläche verweist, erreicht er nicht nur die Grenzen der geometrischen Abstraktion und der minimalistischen Skulptur, sondern des Modernis- mus selbst.“2

Die bewußt irreführende Rahmen-Optik bei Miller funktioniert nur solange, wie eine Abwesenheit des malerischen Bildes vermutet wird, der Künstler also an den klassischen Kategorien des Tafelbildes gemessen wird. Das mag vordergründig so sein. Gerold Millers eigentliche Intention jedoch wird deutlich, wenn man sich den Bildtitel der ersten großangelegten Werkgruppe ansieht. Denn mit dem Begriff „Anlage“ als Serientitel, der seit Anfang der 1990er Jahre verwendet wird, ist klar, in welche Richtung es gehen soll. „Gerold Millers ‚Anlagen‘ […] sind visuell sedierte, farblich und formal nüchterne Objekte, die sich im Raum nicht exponieren oder ihn terrorisieren, sondern die Sachen als eine Art optischer Ordnungsanweisung integrieren, keine Ord- nung aufzwingen, sondern anbieten; Verheißungen, Ver- sprechungen, die als Angebot so oder so leer bleiben (müssen).“3

Immaterieller Bildausschnitt

Die augenscheinlichen Rahmungen sind installativ aufgefasste Bedingungen für die Möglichkeit eines variablen, immateriellen Bildausschnitts. Sie unterscheiden sich von Durchblick und Bildausschnitt organisierenden Architekturteilen wie der Fensteroder Türrahmung durch ihre Mobilität und vollziehen etwas nach, das durch die gesamte Kunstproduktionsgeschichte hindurch ravierende Parallelen hat. Denn seit der Entlassung der immobilen Wandmalerei in die Ortsunabhängigkeit des portablen Tafelbildes (spätestens in der italienischen Renaissance) gilt der vorher architektonisch-statische Rahmen nun als variabler Platzhalter für das Gemälde. Damit war er in dieser Reihenfolge zunächst Fassung und Gestell, dann Schutz und Umriss, und schließlich emanzipiertes Halte Dekor für den Bildträger. Und nicht zuletzt war der Bilderrahmen spätestens seit dem Barock eine Herausforderung in Sachen ästhetischer Gestaltung und Grenzüberschreitung für das eigentliche Bild überhaupt. Doch hier blieb es vorwiegend bei kunsthandwerklichen Spielereien für Pompöses in Schlössern, Kabinetten und Salons sowie Kurioses für die Kunst und Wunderkammern. Bild und Rahmen entwickelten sich durchaus im Sinne ihrer angepeilten Eigenständigkeit, blieben aber vorläufig im symbiotischen Selbstverständnis abhängig von einander. Die Radikalität der ausschließlichen, autonomen Rahmung aber konnte erst Sache einer tabufreien Moderne werden. Erst in einem aufgeklärten Milieu wurden typische Strukturfragen möglich wie: Was ist eigentlich, wenn nichts ist? Kann es eine Art abgesaugte Bildlichkeit mit Bildrekurs geben und wenn ja, unter welchen Bedingungen und mit welchem Sinntransport? Was also ist die Inversionslage der Bildlichkeit?

Mit der alleinigen Konzentration auf den Rahmen mögicher „Bilder“ (der Begriff Gemälde würde hier im Millerschen Zusammenhang nicht mehr funktionieren) geschehen zwei zentrale Dinge. Zunächst wird mit jeder Rahmung verstärkt nach der Existenz und den Bedingungen von Bildern gefragt, später dann auch nach der Bildlichkeit erzeugenden Rahmung selbst. Werden beide Gesichtspunkte miteinander verknüpft, kommt jener Raum mit ins Spiel, in dem sich die Bedingungen von Bildlichkeit (nach einem postulierten „Ende des Bildes“) abspielen kann. Und spätestens von da an wird es erst richtig interessant. Gerold Miller geht diesen Fragen in seiner Kunst nach.

Meditationszone

Ein Rahmen ohne Bild bedeutet (neben seiner Ungeheuerlichkeit für eine Kunst) zunächst einen radikalen Schlag gegen den medial produzierten Bilder und Bebilderungs überschuss, ist aber gleichzeitig auch eine Anlage zur Bereitstellung einer Meditationszone für mögliche Bilder. Mit dem Millerschen Begriff „Anlage“, den er Anfang der 1990er Jahre einsetzt, um seine strukturellen Disponierungen für Flächen und Raumausschnitte zu bezeichnen und gleichzeitig das Konzeptuelle sowie das Installative seiner Arbeit transparent zu machen, schafft er den jeweiligen „Ashram“ zur Meditationszone in eigener Sache, oder anders, die Einladung in einen ikonoklastischen Tempelbezirk der Vor Bildlichkeit. Etwas profaner: Miller liefert mit seiner Kunst die künstlerischen Layouts zur Produktion imaginärer Bilddispositive. Diese werden nötig, wenn das Bild selbst abwesend ist. Es ist zunächst eine durchaus provokante Konfrontation. Denn versteht sich die Rahmung als Layout, transportiert sie einen immanenten Ergänzungsauftrag. Es muss also etwas einfließen, was das Layout überhaupt legitimiert. Ist die Rahmung dagegen allein Grenze, Begrenzung, Umriss und Fassung, entwirft sie das Rätsel und die Suche nach dem „abgesaugten“ Bild. Im ersten Fall handelt es sich um einen gestalterisch angelegten Aktonsplan zur Produktion eigener Bilder. Im zweiten Fall handelt es sich um das passiv gewordene Relikt oder gar die Reliquie des Bildes, also um deren Bedingungszauber an sich.

Und handwerklich gesehen: „Die Werkgruppen der ‚Anlagen’ sind aus Stahlträgern zusammengeschweißte rechteckige, rahmenartige Wandarbeiten, die handwerklich perfekt verarbeitet und einfarbig lackiert sind. Durch ihre nüchterne materielle und farbige Präsenz wird der Betrachter vom eingebundenen visuellen Vakuum der art eingenommen, daß er fast automatisch beginnt, diese Leere mit Bildern, gleich einem vorgeschalteten geistigen Auge, zu füllen.“4 Das gilt hauptsächlich für Millers Arbeiten seit 1991. „Offene wie geschlossene Begrenzungen, die Flächen, Gebiete, Räume, Plätze, Felder umschreiben, sind die im übertragenen Sinne Arbeitsmaterialien des Künstlers.“5

Stahl und Lack

Die Millerschen „Anlagen“ sind alle farbig gefasst. „So gibt es frühere Werkabschnitte, wo aus der Reihe der üblicherweise von ihm verwendeten Farben ein kräftiges, fast aggressives Orange heraussticht, das deutlich mit dem plastischen Charakter der Arbeiten korrespondiert. In den vergangenen drei Jahren beschränkt sich seine Farbskala auf ein dunkles Blau, ein Grau, ein Beige, sowie auf Weiß und Schwarz, wobei die jeweils gewählte Farbigkeit stärker glänzend oder matt eingesetzt werden kann. Ein Farbton wird dabei häufig für eine Gruppe von – zuvor modellhaft erprobten und untersuchten – ‚Anlagen’ festgelegt, die ein identisches Format haben und nur in ihrer Struktur, also hinsichtlich der Platzierung der zusätzlichen Binnenleisten differieren. […] Für alle ‚Anlagen’ trifft zu, daß der Farbauftrag so gehalten ist, daß er sich vollkommen mit seinem Träger verbindet, also kei- nerlei ‚Duktus’ aufweist, was ein technisches, normier- tes, entindividualisiertes Moment der Arbeiten betont.“6 Während die Werkserie der Anlagen (Abb. 1) hauptsächlich in den Materialien Stahl und Lack realisiert wird, entwickelt Gerold Miller Mitte der 1990er Jahre zunächst parallel dazu Rahmenkonzepte, welche die Beschäftigung mit Termination auf installativ performativer Ebene realisiert. In allen diesen „installativen Aktionen“ wird bewusst oder unbewusst auf einen ursprünglich rituellen Vorgang (Archetyp) zurückgegriffen, der einst der Konzeption von griechischen Tempelbauten voraus ging: das Terminieren des Sakralbereiches durch weihendes Abstecken seines in Aussicht stehenden Areals. Die dazu verwendeten sogenannten „termini a quibus“ (damals noch nicht im Sinne von Begriff, sondern mit Materialeigenschaften) definierten den heiligen Bezirk als Zeitpunkt, von dem an etwas im Raum ausgeführt werden soll. Die termini bezeichnen also die „Setzung“ der Ecken eines Areals, sozusagen die minimalistischen Voraussetzungen zur Darstellung reduktiver Geometrie mit intendiertem Revieranspruch. Gerold Miller setzt solche „Ecken“ seit 1994 in Arbeiten ein, die ein (angenommenes) „Bild“ als Assoziativ an verschiedenen Orten ermöglichen. Dazu legt er das Objekt-Multiple „Bild“ auf, eine Box, die Kartonecken enthält, welche der Käufer selbst zum gewünschten, frei formatierbaren Bildareal positionieren kann.

Die Punktverortung von Arealen durch Eckenfixierung funktioniert nicht nur an der Wand, sondern auch in Räumlichkeiten. Es ist eine Frage der Dimension. Mit dem Aktionstitel „Wildest Dreams“ etwa positioniert der Künstler 1995 vier unterschiedliche Stuhltypen im Aus- stellungsraum so, dass sie die Eckpunkte für ein fast rechtwinkliges Rahmenkonzept definieren. In der Spannung von banaler Rahmen-Optik und erwartungsvollem Aktionstitel kann sich das individuelle Bildprogramm dazu im jeweiligen Betrachter einstellen.

Zu den installativen Aktionen Millers in dieser Zeit gehört die 1996 unter dem Titel Amazing ad hoc im Atelier entstandene. Sie ist an elementarer Einfachheit kaum zu überbieten und folgt auf höchst profane Weise wieder dem mitzudenkenden, terminierenden Tempelarealge danken. In dieser Aktion werden vier Zigarettenkippen mit den Filtern nach außen so platziert, dass sie ein Quadrat und dessen Diagonalen assoziativ definieren, das wiederum einer die Geometrie verstärkenden, quadratischen Bodenfliese einbeschrieben ist. Eine solche Spontanzusammenrottung sinnfälliger Fundstücke ist „amazing“ und bezieht sich sowohl auf den geometrischen (Terminus) als auch auf den zeitlichen Aspekt (Termin) von Terminierung. Das darf durchaus in der Nachfolge des manipulierten „objet trouvé“ diskutiert werden. Objekt, Objektausrichtung und die Vereinbarung des neuen Zusammenhanges interagieren mit ihrem Ort, sodass der Raum (Räumlichkeit) ebenfalls in einem neuen Sinn aufgeladen und präsent wird.

Gerold Miller bleibt in allen seinen Arbeiten der verschiedenen Werkphasen und Werkgruppen, ob sie als Relief, als Objekt oder als installative Aktion umgesetzt werden, immer sehr nahe an diesem roten Faden. Über all dort, wo Grenze und Begrenzung in Umrissdiskussionen aufgehen und dabei das gestaltete Dispositiv Rahmung ins Spiel kommt, geht es in der Hauptsache um Reviersicherung, wobei die Bezeichnungen Revier und Areal verhandelbar erscheinen. Nach dem Ausfall des „Bildes“ als Revierinhalt erhält diese Reviersicherung eine neue Gewichtung, die mehr im Andenken aufgeht als im Zeigen. Das ist der Schlüssel. Diese Sicherung handelt von der konstituierenden Kraft der Bedingungen und Möglichkeiten für etwas, das zwar bildfrei daherkommt, aber trotzdem allein in seiner vorstellen den Bildlichkeit aufgehen kann. Gerold Miller hat mit seinem Werk einen Tresor der Bildvorstellungen und gleichzeitig einen Weg gefunden, einem wie auch immer postulierten „Ende des Bildes“ in der Kunst so nachzugehen, dass er über die konstituierende Reliktsicherung (Rahmung) gleichzeitig auch das einstige Revier des Bildes sichern konnte. Das ist durchaus als eine radikal zu Ende gedachte „Andacht dem Bild zuliebe“ (nach dessen vermuteter Verunmöglichung in allen Gattungen der Kunst) zu verstehen, ohne dabei in Larmoyanz ob des Verlustes aufzugehen.

Anmerkungen

1  Stephan Maier, Gerold Miller. Die Eleganz der Leere. Das Totale an den Objekten Gerold Millers. Zwischen Ornament und Versprechen, In: Kunstforum International, Bd. 193, 2008, S. 255

2  Peter Weibel, In: Ausst.-Katalog. Gerold Miller – Get ready. Nationalgalerie im Hamburger Bahnhof, Museum für Gegenwartskunst Berlin von 21. 09. bis 10. 11. 2002. Heidel- berg 2002, S. 127

3  Stephan Maier, a.a.O., S. 258

4  Jan Wink

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